Ha proprio ragione Letta quando osserva che nel mondo della politica avvengono «cose indecorose» e quando deplora la perdita del «senso delle istituzioni». Ma anche lui sa che non basteranno i suoi moniti saggi, né quelli di Napolitano, per limitare i danni che, ogni giorno, si provocano sull’immagine internazionale del nostro Paese e sulla credibilità della nostra classe politica nei confronti dei cittadini.
Il contributo più utile, però, che il presidente del Consiglio può fornire, prima che si arrivi a uno scontro tanto permanente quanto improduttivo, è quello di riuscire a superare una condizione che del suo ministero fa un «unicum» assoluto nella storia della Repubblica.
Non si è mai visto, infatti, un governo che, pur godendo, sulla carta, di una maggioranza parlamentare amplissima, appaia così isolato dai partiti che lo sostengono. Né si è mai visto un governo che, nonostante tutto, non abbia alcuna alternativa concreta e, quindi, appaia insostituibile.
La situazione, se vogliamo uscire dalle ipocrisie, è riassumibile in poche parole: il Pd è squassato da una battaglia interna devastante e, nella sostanza, paradossale, perché è l’unico partito al mondo che, possedendo un leader sicuramente vincente alle elezioni, come Renzi, sta cercando in tutti modi di evitare di candidarlo. Nel frattempo, quel partito invoca le dimissioni, un giorno di Alfano, l’altro di Calderoli e spera che la Cassazione riesca a fare quello che in vent’anni non è stato capace di fare: eliminare dalla scena politica Berlusconi. Del governo se ne occupa, perciò, il meno possibile, anche perché, occupandosene, dovrebbe ricordare ai suoi furibondi e disperati elettori che, in quel governo, collabora con il nemico di sempre, l’odiato Cavaliere.
Il Pdl, l’altra gamba su cui si regge, si fa per dire, il ministero Letta, è perfettamente consapevole che, senza il suo fondatore e padrone assoluto, è un partito inesistente, sia nella politica nazionale, sia in quella locale, come dimostrato, prima dalla campagna elettorale per il Parlamento e, poi, dai risultati delle recenti elezioni amministrative. Ecco perché è terrorizzato dalla possibile condanna definitiva del suo leader e alterna minacce di conseguenze devastanti sulle istituzioni e sul governo, in caso di conferma della sentenza Mediaset, a improbabili rassicurazioni sul senso di responsabilità del partito, nella speranza di convincere i giudici della Cassazione a tener conto sia di quelle minacce, sia di quella promessa. In attesa dell’unica cosa che per il Pdl abbia importanza, quel verdetto di fine mese, ci si può dividere, senza troppi danni, tra amici e nemici di Alfano.
Il terzo partito che conta, o potrebbe contare, nella politica italiana, il Movimento di Grillo, si è autoesiliato in un sostanziale Aventino che, come tutti gli Aventini della storia, è destinato alla totale inutilità e, quindi, a un destino di sicuro fallimento. Il solo concreto risultato della posizione del M5S, se vogliamo, è di togliere l’unica teorica alternativa possibile al governo Letta, rafforzando così la sua insostituibilità, perché tutti sanno che, senza una diversa legge elettorale, i risultati di un nuovo voto sarebbero, più o meno, gli stessi.
A questo proposito, il governo Letta dovrebbe dimostrare di meritare la fortuna di non avere possibili successori e di non meritare l’isolamento dai partiti che lo sostengono. Nell’unico modo praticabile: smettendo di rinviare la soluzione dei problemi più gravi e urgenti, a partire dalla tassa sulla casa e dall’aumento dell’Iva e affrontando, con la radicalità che la situazione impone, la questione che più interessa gli italiani: la ripresa dell’economia. La crisi dell’occupazione, soprattutto giovanile, è tale da non consentire più soluzioni di compromesso, pannicelli caldi, misure che non sono in grado di cambiare sostanzialmente le cose nel mondo del lavoro. L’inesistenza di una seria alternativa a questo governo dovrebbe costituire la più formidabile leva di convinzione per non procedere più con la strategia dei rinvii e dei piccoli passi, quando urgono, invece, passi da giganti. È vero che il coraggio, come diceva don Abbondio, se uno non ce l’ha, non se lo può dare, ma in certe occasioni ce ne vuole davvero poco per non approfittarne.
Finora Letta ha utilizzato, con giovanile sapienza, il credito internazionale per le sue salde convinzioni europeiste e quello nazionale per la serietà dei suoi comportamenti. Ma ora è scaduta la sua «luna di miele» con i cittadini del nostro Paese, ai quali deve dimostrare che le sue doti di abile mediatore dei conflitti non condanneranno l’Italia a un sostanziale immobilismo. Perché sono vent’anni, da quando è cominciata una seconda Repubblica dai risultati davvero fallimentari, che non si riesce a rompere il muro dei «no» ripetuto inesorabilmente dalle mille nostre corporazioni. Quelle corporazioni di ostinati interessi particolari che ci stanno condannando a un irreversibile declino.
LA Stampa 16.07.13