È singolare, ma anche significativa, la vicenda delle Province. Da oltre trent’anni si parla di cancellarle o, comunque, di ridurle sensibilmente. Con effetti del tutto opposti. Erano, infatti, 95 negli anni Settanta. E già si parlava di “abolirle”. Rimpiazzarle con altri enti intermedi. Negli anni Novanta sono salite a 103. E oggi sono divenute 110. Il problema è che le Province non sono solamente ambiti amministrativi e di governo locale, ma rappresentano, da sempre, un riferimento dell’appartenenza territoriale per le persone. Insieme alle città e almeno quanto le Regioni, le Province servono a “posizionarci” e a definirci, rispetto agli altri “italiani” (come rilevano le indagini di Demos pubblicate, da quasi vent’anni, su
Limes).
Anche perché costituiscono sistemi urbani, economici, sociali e, in parte, politici omogenei. Non a caso le mappe elettorali che realizzo, da tanti anni, dopo ogni elezione hanno, come base, le Province. E, almeno fino a ieri, hanno riprodotto e dimostrato la sostanziale continuità dei comportamenti di voto, nel corso del dopoguerra. Coerentemente con i lineamenti economici e sociali del Paese. E delle sue province.
Anche per questo, invece di ridursi e di accorparsi – o di venire ridotte e riaccorpate –le Province sono sensibilmente cresciute, di numero, negli ultimi vent’anni. Perché delineano riferimenti importanti della storia e dell’identità sociale. Ma anche del potere locale. Perché, inoltre, coincidono con sistemi burocratici e assemblee elettive, molto difficili da ridimensionare, a maggior ragione: da cancellare. Tanto più che le Province hanno svolto e svolgono compiti importanti su base locale. Fra gli altri: in materia di trasporti, ambiente, edilizia scolastica. E poi: costituiscono il principale ambito di “mediazione” fra i Comuni e le Regioni. Soprattutto per i Municipi più piccoli, si tratta di istituzioni utili ad accorciare le distanze dai centri del Potere Stato-Regionale.
Per questo, fin qui, è sempre risultato difficile cancellare le Province o, almeno, ridurne il numero. E, anzi, mentre si discuteva in quale modo e misura ridimensionarle, si sono, invece, moltiplicate ancora. D’altronde, l’abbiamo detto, costituiscono dei luoghi di potere. Dove sono insediati attori politici, burocratici e socioeconomici poco disponibili a scomparire, oppure a farsi riassorbire in altri ambiti istituzionali e di potere.
C’è poi un’ulteriore questione. Riguarda la singolare via del federalismo all’italiana. Che si è sviluppata, dagli anni Novanta in poi, attraverso il trasferimento – e talora la duplicazione – di compiti e attribuzioni dal Centro alla Periferia. Dallo Stato agli enti locali. Non solo: attraverso la moltiplicazione dei centri e dei gruppi di potere locali. Un processo di cui è stata protagonista la Lega, ma non solo. Anche per questo i progetti volti a riassorbire le Province hanno avuto vita dura. Perché i maggiori partiti e, per prima, la Lega nel Nord si sono opposti alla prospettiva di perdere “potere” e risorse sul territorio. E, a questo fine, hanno brandito e agitato la bandiera del Federalismo. Dell’Autonomia Locale contro lo Stato Centrale.
Non è un caso, dunque, che l’attacco definitivo (così almeno si pensava) all’Italia delle Province sia stato lanciato un anno fa dal Governo “tecnico” guidato da Mario Monti. Per ragioni “tecniche” molto ragionevoli, orientate dalla spending review. Dalla necessità di revisione e riduzione della spesa pubblica. Visto che il collage provincialista del nostro Paese è divenuto, come si è detto, sempre più oneroso e dissipativo. Non è casuale l’iniziativa di un anno fa. Dettata dall’emergenza. Favorita dalla “debolezza” politica degli attori che hanno agitato la bandiera del territorio negli ultimi vent’anni. Per prima la Lega, affondata, alle elezioni recenti. E aggrappata alle Regioni del Nord, dove è ancora al governo. D’altronde, la Questione Settentrionale appare silenziata. Messa a tacere dalla Questione Nazionale imposta dalla Ue e dalle autorità economiche e monetarie internazionali. Che esigono risparmi e tagli. E hanno rovesciato le gerarchie geopolitiche, sotto-ponendo la periferia al centro. Il territorio ai poteri della finanza e della politica globale.
Così, l’Italia Provinciale è divenuta un problema. Trattata come un vincolo di spesa, una variabile dipendente da controllare e orientare. Il governo Monti ha, dunque, proceduto, dapprima, all’abolizione dei consigli provinciali e, quindi, a una sostanziosa riduzione del numero delle Province (da 86 a 50, nelle Regioni a statuto ordinario). Per decreto legge, con procedura d’urgenza. In base, appunto, a motivi di emergenza. Procedure e motivi non compatibili con una materia “costituzionale”, com’è quella dell’organizzazione territoriale dello Stato. Di cui le Province sono parte integrante.
Così l’Italia Provinciale resiste ed esiste ancora. Malgrado i tentativi e la volontà espressa da molti, diversi soggetti politici ed economici, di ridimensionarla. D’altronde, due italiani su tre pensano che le province andrebbero almeno ridotte. Ma il 60% è contrario ad abolire la Provincia dove vive (Sondaggio Ipsos per l’Upi, novembre 2011). In altri termini: gli italiani sono disposti a “cancellare” o, comunque, a mettere in discussione la provincia degli altri. Ma non la propria. Per questo non sarà facile, al governo guidato da Enrico Letta, abolire le Province dal lessico geopolitico nazionale, come prevede il Ddl costituzionale, approvato nei giorni scorsi. Dovrebbe, infatti, ridisegnare non solo l’organizzazione ma, insieme, la stessa identità territoriale del Paese. Perché le Province, per citare Francesco Merlo, sono il Dna «che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali». Da Nord a Sud, passando per il Centro. E perfino a Roma. L’Italia: Provincia d’Europa e dell’Euro. Un Paese di compaesani (come l’ha definito il sociologo Paolo Segatti). Punteggiato di campanili e municipi. Unito dalle differenze. L’Italia Provinciale e Provincialista: riflette tendenze di lunga durata. Difficilmente verrà sradicata da un governo di larghe intese. E, dunque, di breve periodo.
La Repubblica 08.07.13