Dobbiamo dare atto a questo governo di saper fare equipaggio in modo egregio nella barca europea, dimostrando capacità e diligenza e comunicando con i toni giusti. Il problema però è se, per troppo garbo, non si fa presente che la rotta non è proprio quella giusta. Draghi procede con grandissima abilità ad orientare nel modo corretto le aspettative degli operatori (la Bce continuerà con le sue politiche espansive, accentuandole se necessario, finchè le economie dei Paesi membri non si saranno riprese).
La Ue, invece, è ancora prigioniera di una politica fiscale troppo restrittiva pagata dalla stagnazione dei Paesi del nord e da un avvitamento ancor più grave con crollo della domanda interna che aggrava la recessione nei Paesi del sud. Nonostante i ripensamenti dello stesso Fondo monetario e di molti autorevoli esponenti del «rigorismo espansivo», la politica dell’Unione persevera diabolicamente nell’errore quasi per inerzia, agganciata a dogmi come quelli del 3% del rapporto deficit/Pil, del pareggio di bilancio e del fiscal compact che lo stesso ministro Saccomanni ha fatto presente andrebbero ridiscussi. Malgrado il nuovo campanello d’allarme del Portogallo, piegato da tre anni di recessione aggravata dal crollo della domanda pubblica e privata, non sembriamo volerci liberare del macigno che rischia di portare a fondo l’euro. Tutto ciò mentre i dati continuano a lanciare allarmi. La caduta mensile dei consumi riportata ieri dell’Istat del 2,8% è la più forte dal ’97. I dati sulla disoccupazione aggregata e giovanile sono anch’essi preoccupanti e nulla lascia presagire in Europa quella robusta inversione di tendenza osservata negli Stati Uniti dove l’obiettivo di riportare la disoccupazione sotto il 7% è stato «rivoluzionariamente» fatto proprio dalla stessa banca centrale. In questi giorni ci stiamo rallegrando degli spazi di manovra conquistati: il miliardo e mezzo della quota di fondi europei per rilanciare l’occupazione giovanile, e il «permesso» di arrivare al limite del 3% senza dover muovere verso il pareggio di bilancio, che ci consentirebbe di spendere altri 8-10 miliardi che potrebbero raddoppiare se utilizzati come cofinanziamento di progetti europei a disposizione ma non ancora attivati. Altre risorse potrebbero arrivare dall’anticipo dei pagamenti dei crediti della pubblica amministrazione. Per ora i dati come quelli di ieri ci dicono che potrebbe non bastare. Sono dati che hanno indotto gli stessi alfieri del rigore a cambiare del tutto avviso, proponendo all’Italia di chiedere la deroga al 3% per una manovra shock di riduzione delle tasse sul lavoro e sul reddito in grado di far rilanciare la domanda interna. Già, perché i dati che i saggi hanno riportato nel loro rapporto al presidente della Repubblica ci ricordano che l’economia non può vivere solo di export e che il circa -2% del Pil dello scorso anno è il risultato di un +2% apportato dall’export e di un -4% determinato dal crollo della domanda interna.
Anche se razionalizzare la spesa è importante, non illudiamoci di poter liberare tesori dalla riduzione della spesa pubblica cui molti fanno taumaturgicamente riferimento. Dobbiamo continuare, per quello che dipende da noi, a migliorare gli elementi strutturali del sistema Paese (tempi della giustizia civile, istruzione, information tecnology, burocrazia e corruzione, valorizzazione dei fattori competitivi non delocalizzabili) ma batterci anche per modificare quei fattori strutturali che ci remano contro e che non sono interamente nelle nostre mani.
Oltre al cambiamento della politica fiscale europea dovremmo iniziare a preoccuparci di costruire regole che spingano la globalizzazione al servizio del bene comune. Il metro di riferimento per giudicarla devono essere i diritti della persona e del lavoro: se la tendenza è quella di portare i centinaia di milioni di disperati che guadagnano un dollaro al giorno verso le nostre tutele allora bene, se il moto è contrario (come spesso sta accadendo) c’è qualcosa che non va. O costruiamo accordi di libero scambio con clausole sui diritti e prepariamo la strada per la nascita di un salario minimo mondiale, pur differenziato per aree, o continueremo ad essere risucchiati verso il basso in questa gara tra disperati. I lavoratori di Indesit, Bridgestone, Whirlpool, Natuzzi, Fiat, per citare solo alcuni dei casi in discussione in questi giorni, lo sanno bene. Politica fiscale europea da riformare, globalizzazione 2.0 e miglioramento del sistema Paese (da non confondere con la mera riduzione dei salari che non fa che deprimere la domanda interna) devono essere i fari della nostra azione. Non importa se non tutto dipende interamente da noi. Dobbiamo comunque convincere gli altri e farcela.
L’Unità 06.07.13