«Spesso mi facevano compagnia le cannonate che si scambiavano i tedeschi, che occupavano la città e sparavano dalla collina di Fiesole, e gli Alleati, che stavano guadagnando terreno da sud, dalla zona della Certosa». Era il 1944, quando la ventiduenne Margherita Hack svolgeva le osservazioni per la sua tesi di laurea nelle notti dell’osservatorio di Arcetri, a Firenze, insolitamente buie per il coprifuoco e dunque ideali per chi si affacciava all’oculare di un telescopio.
In verità — racconta nelle pagine di Il perché non lo so,
una suggestiva autobiografia per episodi in edicola con Repubblica e l’Espresso da lunedì 8 luglio — Margherita Hack era arrivata a quella tesi in astronomia quasi per caso. Le avevano negato una tesi in elettronica, e nell’altra materia disponibile, la fisica matematica, non si reputava particolarmente brillante. Così preferì trascorrere le lunghe notti in compagnia delle cannonate e delle Cefeidi, una classe di stelle variabili la cui regolarità serve a misurare la distanza delle galassie in cui si trovano. E ancora di recente ricordava quelle notti avventurose con l’entusiasmo contagioso di un ricercatore alle prime armi.
Alla fine della guerra ebbe un incarico come assistente volontaria all’osservatorio e una modesta borsa di studio dell’Istituto nazionale di ottica, per diventare assistente ad Arcetri nel 1948. Fu in quegli anni che, grazie anche all’incontro con il direttore Giorgio Abetti e con il francese Daniel Chalonge, cominciò ad appassionarsi all’astrofisica. Grazie alla spettroscopia, che permetteva di conoscere la composizione chimica di un astro, lo studio delle stelle smetteva di essere una pura pratica osservativa per diventare una scienza fisica a tutti gli effetti. E mentre proseguiva il suo lavoro di ricerca — con frequenti viaggi tra Berkeley e Parigi, Princeton e Utrecht — cominciò ad appassionarsi alla divulgazione scientifica, collaborando con un quotidiano. Nel frattempo si dedicava alle atmosfere stellari, producendo i suoi lavori scientifici più importanti nello studio dell’evoluzione stellare e nella classificazione spettrale delle stelle. Il suo primo libro rivolto al grande pubblico, L’universo Pianeti stelle galassie, edito da Feltrinelli, è del 1963.
Un anno dopo Margherita Hack è a Trieste, dove ha vinto la cattedra di astronomia e assume la direzione del locale osservatorio. «Quando cominciai a lavorare — scrive ancora in Il perché non lo so — trovai una situazione di abbandono». Lo staff era composto da due soli ricercatori, e l’unico strumento disponibile era un piccolo telescopio amatoriale. Così, risoluta come era in ogni sua espressione, avviò la costruzione di un nuovo osservatorio lontano dall’inquinamento luminoso della città, vicino a Basovizza, sul Carso triestino, attorno al quale raccolse giovani ricercatori invitando i massimi esperti della materia. Grazie anche alle sue qualità didattiche, che emergono in tutta la sua opera di divulgazione, e alle ottime relazioni internazionali, nel giro di pochi anni l’osservatorio divenne un centro molto attivo, che riceveva visite da tutto il mondo. E quando lo lasciò, vent’anni dopo, aveva uno staff di un’ottantina di persone.
Il perché non lo so è il racconto appassionato di una vita tutta ispirata dalla scienza. Dove si leggono la pazienza, la tenacia, il sacrificio e la solitudine che occorrono per misurarsi con l’ignoto, «proprio la situazione in cui si trovano Sherlock Holmes o Hercule Poirot». Ma, chiosa Margherita Hack senza alcun rimpianto, «nessuna fatica è inutile se lo scopo è importante ». Ed è forse questa l’eredità più preziosa che ci lascia.
La Repubblica 06.07.13