Che la riforma e il riordino delle Province, decise con vari decreti-legge dal governo Monti, fossero operazioni costituzionalmente illegittime avrebbe dovuto essere quasi scontato, proprio per le ragioni indicate l’altro ieri nel comunicato stampa della Corte costituzionale: la previsione con decreto-legge di riforme ordinamentali da attuarsi con successivi atti con forza di legge è intrinsecamente contraddittoria con la natura del decreto-legge, quale provvedimento di necessità e urgenza.
Inoltre l’art. 133 della Costituzione, che delinea un procedimento legislativo rinforzato per il mutamento delle circoscrizioni provinciali, senza disciplinare il procedimento per la loro soppressione come singoli enti, avrebbe dovuto indurre alla conclusione che la via appropriata per procedere in tal senso è la riforma della Costituzione. Tuttavia la decisione della Consulta non era scontata: non solo per la forte pressione dell’opinione pubblica su questo tema, ma anche per la giurisprudenza anti-regionalista ed anti-autonomista del giudice delle leggi italiano, che ci ha abituato in materia a non poche capriole argomentative.
Chiuso comunque questo capitolo secondo la logica del diritto costituzionale, si pongono due problemi non da poco: si deve effettivamente procedere all’abolizione delle Province, o si deve ricercare una soluzione meno radicale, che ne riduca il numero, magari lasciandola sussistere nelle Regioni più grandi? E in quale modo si deve procedere? La questione, infatti, è molto più complessa di quanto certe campagne di stampa lascino supporre, e non solo per la resistenza di una parte del ceto politico. Varie parti del territorio italiano sono infatti caratterizzate da Comuni troppo piccoli e da Regioni troppo grandi, e richiedono l’esistenza di enti di «area vasta», che del resto esistono in Francia, Spagna e Germania. Peraltro la complicazione del «millefoglie territoriale» italiano è solo in parte prodotta dall’esistenza delle Province, dovendosi piuttosto alla proliferazione di enti sovracomunali di vario tipo, fra i quali occorrerebbe mettere ordine.
Ciononostante, la domanda di semplificazione del sistema politico e dell’ordinamento territoriale è ormai troppo forte perché sia possibile resistervi e il governo Letta si è chiaramente orientato in favore della soppressione delle Province, sin dalle sue dichiarazioni programmatiche alle Camere. Se, tuttavia, abolizione ha da essere, sarebbe bene non solo che questa volta si utilizzasse la procedura appropriata (vale a dire la legge di revisione costituzionale), ma anche che in tal senso si procedesse in maniera ordinata, nel quadro del processo complessivo di riforma costituzionale che il governo ha avviato un mese fa. Da questo punto di vista, la questione delle Province non è una monade senza porte e senza finestre, ma un tassello di un ordinamento territoriale assai complesso (forse più complesso di quanto il Paese possa oggi permettersi). In questo contesto il rischio principale è scambiare la semplificazione col semplicismo e credere che i problemi possano risolversi con un tratto di penna. È nel quadro del non più rinviabile riassetto del sistema delle autonomie territoriali (a sua volta connesso alla riforma del bicameralismo e della forma di governo) che il tema delle Province (soppressione o riordino) deve essere collocato.
È bene tuttavia ricordare che questa riforma non sarà senza costi. Non solo vi è il rischio di abbandonare al loro destino migliaia di piccoli Comuni, soprattutto nelle zone montane, ma anche i benefici economici attesi dalla soppressione delle Province saranno assai ridotti. Nessuno, infatti, propone di licenziare i dipendenti provinciali, i quali verosimilmente transiteranno nei ruoli regionali, con conseguenti aumenti retributivi, e maggiori costi per la finanza pubblica.
L’Unità 05.07.13