Dovrebbe succedere a partire da gennaio 2014: entro quattro mesi dal titolo di studio o dal giorno in cui hanno perso il lavoro tutti i neodiplomati e i neolaureati dovranno ricevere un’offerta di impiego. Vista dall’Italia, la Garanzia per i giovani su cui l’Europa ha deciso di investire fino a nove miliardi ha il sapore della sfida impossibile. Togliendo luglio e agosto, quando la burocrazia italiana gira al minimo, significa che abbiamo quattro mesi per mettere in piedi un’organizzazione dalle dimensioni ciclopiche.
Il primo termine del problema è noto. Nel 2012 si sono diplomati 448 mila studenti, 225 mila dei quali hanno deciso di non proseguire gli studi. Dalle Università, invece, sono uscite 229 mila persone tra lauree brevi e specialistiche. Il totale dei candidati a godere della youth guarantee assomma a 454mila ex studenti. Anche il secondo termine del problema è noto: il sostegno al lavoro, dice il piano europeo, dovrà passare attraverso i Centri per l’impiego. Tornando a spulciare i dati sul 2012 si scopre che i posti ottenuti via Cpi sono stati poco più di 17mila. Significa che l’anno prossimo i Centri dovranno essere capaci di aumentare la loro produttività (i posti di lavoro assegnati) di ventisei volte. I numeri sono importanti perché i fondi di Bruxelles (il miliardo e mezzo disponibile di cui ha parlato il premier Enrico Letta) saranno pagati solo sulla base di progetti nazionali precisi, documentati e verificati dall’Unione europea. Riassumendo: produrre il progetto, approvare leggi e regolamenti che si renderanno indispensabili, farlo confermare dall’Unione europea. Tutto entro gennaio 2014.
Oggi i Centri per l’impiego italiani sono gestiti attraverso le Province (che, a rigore, dovrebbero essere in via di abolizione) e fanno quello che possono. Poco. Ancora i numeri del 2012: su un milione di ragazzi tra i 15 e i 24 anni che hanno trovato lavoro nel 2012 solo l’1,8% è passato attraverso i Cpi. Metà o poco meno si sono rivolti a conoscenti o amici, un quarto hanno fatto richiesta direttamente al datore di lavoro, il 5,5% è stato assunto al termine di uno stage o di un periodo di tirocinio, il 4,6% è passato attraverso le agenzie interinali, il 2,4% ha trovato grazie a internet. Prima della riforma del 1997, quando i Centri per l’impiego si chiamavano ancora Uffici di collocamento, riuscivano a sistemare circa il 3,2% dei loro clienti. L’ennesima riforma all’italiana, di quelle che peggiorano la situazione che dovrebbero cambiare in meglio.
Ora si tratta di scommettere sulla prossima riforma: che, se vuole raggiungere l’obiettivo prefissato, dovrà essere molto robusta. Anzitutto i Centri per l’impiego lavorano su base provinciale e dispongono, allo stato, solo dei dati sulla provincia di riferimento. Quello di Bologna non sa di quali lavoratori hanno bisogno le imprese di Ferrara. In secondo luogo, sono a corto di personale: i 553 uffici attivi in Italia devono gestire una mole enorme di disoccupati (la media è di circa 5.000 persone a caccia di lavoro per ogni sede, e nel conto non rientrano ovviamente neodiplomati e neolaureati che dall’anno prossimo avranno diritto alla garanzia europea). Gli impiegati sono in tutto novemila: come dire che già adesso ogni funzionario deve studiare un percorso professionale personalizzato per quasi trecento persone l’anno. Considerando domeniche, feste e ferie si tratta di un posto al giorno. Dopo saranno ancora di più.
L’ultimo dato che manca al problema è quello delle aziende disposte a prendere in carico tutti questi giovani. Avranno uno sconto fiscale, potranno pagarli poco, ma sono le stesse imprese che affrontano la crisi più severa che la storia del nostro Paese ricordi. Ecco perché il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi di fronte al miliardo e mezzo messo a disposizione dell’Europa ha levato il sopracciglio: «Mi pare una cifra modestina».
La Stampa 30.06.13