Ritorna vincitore? Molti sostengono di sì e fanno l’elenco delle vittorie ottenute da Letta al vertice di Bruxelles: un miliardo e mezzo per l’occupazione dei giovani, l’attivazione di prestiti per le piccole imprese da parte della Bei, l’approvazione definitiva dell’uscita dall’Italia dal procedimento d’infrazione del deficit, i complimenti della Merkel per i compiti a casa scrupolosamente portati a termine. Ma molti altri sostengono invece che si tratta d’un pugno di mosche o d’un piatto di lenticchie.
Che il tesoretto sia quantitativamente modesto è certamente vero, ma che a Bruxelles sia avvenuta una svolta positiva nella politica economica europea (e tedesca) è incontestabile, soprattutto se si esaminano i progressi dell’Unione bancaria voluta da Francia Italia e Spagna e soprattutto dalla Bce. C’è ancora molto da fare sul tema delle garanzie dei depositi, ma il principio è stato ribadito e questo è un fatto di grande importanza che mette i debiti sovrani al riparo da eventuali dissesti bancari.
Nel frattempo, mentre Bernanke si propone di metter fine all’espansione della liquidità e di rialzare sopra lo zero attuale il tasso di interesse, Draghi non lo seguirà né sull’una né sull’altra di queste decisioni. Questo è il vero aspetto positivo del vertice di Bruxelles di cui l’Italia è stata uno dei protagonisti.
Non si poteva sperare di più; anche se la svolta è appena agli inizi.
Ma — obiettano i critici — la strana coalizione che sostiene il governo è sempre più rissosa. Berlusconi al mattino promette appoggio pieno e leale a Letta, nel pomeriggio spara contro la politica del governo, alla sera minaccia elezioni a breve scadenza e prepara un nuovo partito d’assalto che sarà il motore d’una vasta coalizione.
Il tormentone non ha tregua e il governo delle larghe intese non potrà reggere a lungo. Sarà un miracolo se arriverà alla fine dell’anno. È così?
In realtà non è così perché questo non è mai stato e non si è mai proposto di essere un governo di larghe intese, di pacificazione e di definitiva concordia. Questo, al di là delle opportune ipocrisie che fanno parte del cerimoniale, è stato fin dall’inizio un governo di necessità e di scopo. Si è concentrato — come il presidente del Consiglio non cessa di ripetere — sulle politiche concrete, sui temi che interessano la gente, i giovani, i lavoratori, le imprese, i consumatori, il Mezzogiorno. Le politiche, al plurale, non la visione politica globale che semmai tocca ai partiti e ai movimenti di elaborare.
Questo è un governo a termine, lo sappiamo tutti. Tra un anno avremo le elezioni europee la cui importanza non può sfuggire a nessuno. Poco dopo, nel luglio 2014, avrà inizio il semestre di presidenza europea spettante all’Italia e sarà Letta a presiederlo. Con ogni probabilità all’inizio del 2015 il governo sarà dimissionario e la legislatura avrà termine.
A quella data, Berlusconi avrà quasi ottant’anni. Quali che siano state nel frattempo le sue vicende giudiziarie, il suo percorso politico si chiuderà. La strana alleanza, non essendo più necessaria, cederà il posto al normale scontro politico tra conservatori e riformisti o se volete tra destra e sinistra, tra chi mette l’accento sulla libertà senza ignorare l’esigenza dell’equità sociale e chi lo mette invece sull’eguaglianza purché conviva con la libertà e i doveri con i diritti. Cioè la normale dialettica di ogni democrazia. Sempre che l’Europa stia uscendo dalla crisi che ormai da tre anni ci tormenta ed abbia imboccato la strada di uno Stato federale.
Questo percorso non ha alternative. Abbiamo più volte scritto che l’uscita dell’Italia dall’euro, vista come un modo per superare il divario di produttività rispetto agli altri Paesi del continente, è una solenne sciocchezza. Il ritorno alla liretta equivarrebbe ad un vero e proprio “default” che ci farebbe precipitare al di sotto di tutti i Paesi mediterranei abbandonandoci nelle braccia della speculazione. Capisco che Grillo indulga a quest’ipotesi, spesso adombrata anche da Berlusconi: puntano tutti e due a prender voti dai tanti allocchi che attribuiscono
all’euro gli antichi e nuovi mali dei quali soffriamo. Capisco assai meno che analoghe tesi siano sostenute da un finanziere come Caltagirone che non ha ambizioni politiche e dovrebbe avere qualche nozione di finanza e di economia.
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Accanto alle “politiche” il governo Letta ha anche lo scopo di avviare un pacchetto di riforme costituzionali. Qui, a nostro avviso, è stato commesso un errore: si sono escluse riforme che tocchino la prima parte della Costituzione, quella che riguarda i principi, lasciando invece libero il campo a riforme che il Parlamento dovrà avviare senza stabilire esplicitamente quali.
Siamo per fortuna ancora in tempo poiché la legge costituzionale è ancora allo studio e sarà poi trasmessa al Parlamento seguendo la procedura immaginata di affidarne la redazione alla Commissione bicamerale competente e poi, per la decisione definitiva, alle due Camere secondo il dettato dell’articolo 138 rinforzato da vari referendum finali sui singoli beni.
E bene, i temi in realtà sono soltanto tre e sarebbe opportuno precisarli per evitare sortite spesso inconsulte: la riforma del Senato e del bicameralismo perfetto, che non esiste in un nessun Paese dell’Occidente; l’abolizione delle Province; il taglio nel numero dei parlamentari
e dei senatori.
Queste sono le riforme da portare a termine. L’abolizione del finanziamento dei partiti è già stata oggetto di una legge del governo della quale urge l’inizio della discussione parlamentare. La riforma della giustizia civile è già parzialmente iniziata e va rapidamente condotta a termine. La legge elettorale, che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all’apposita commissione dei 40; va a nostro avviso rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un improbabile ma possibile ritiro della fiducia al governo da parte di un partito della strana maggioranza avvenga senza che l’abolizione del “Porcellum” sia avvenuta.
Non dico che la nuova legge elettorale debba esser fatta subito; dico soltanto che non deve essere ingabbiata e condizionata dalle riforme costituzionali. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento.
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Ci sarebbero molti altri argomenti da esaminare: i tagli di spesa per procurare risorse aggiuntive, la riforma del fisco che farà parte della legge di stabilità del prossimo autunno. E poi il congresso del Partito democratico.
Sui temi della spesa e del fisco
segnalo due importanti e chiarificatrici interviste di venerdì scorso: quella del ministro Giovannini su
Repubblica e quella di Fabrizio Saccomanni sul Corriere della Sera.
Una parola sul congresso del Pd. Che il dibattito, come sempre dovrebbe avvenire, abbia inizio nelle istanze di base locali, sezioni o circoli che siano, mi sembra ovvio. Qual è il tema per un partito che sembra aver smarrito la sua identità? Appunto quello, la visione della società come la concepiscono i militanti che dal basso la trasmettano alle istanze regionali e nazionali. Alfredo Reichlin ha ben interpretato questo percorso affidando un suo documento alla lettura online nel sito del partito. Altrettanto faranno Renzi, Cuperlo, Fassina, Civati, che siano candidati oppure no alla segreteria del partito.
Questo è il dibattito sull’identità, il quale culminerà poi con le primarie nazionali come è sempre avvenuto da quando esiste il Pd.
Altra cosa è l’elezione del candidato alla presidenza del Consiglio. Le elezioni politiche non sono imminenti e comunque non si elegge un candidato a guidare il governo nel momento in cui un governo c’è ed è guidato da un’eminente personalità del Pd. L’incongruenza sarebbe talmente evidente che non sembra neppure il caso di discuterne. Post Scriptum.
È di ieri la notizia che John Elkann, presidente
della Fiat, ha telefonato al Capo dello Stato per informarlo che la sua società è diventata l’azionista di maggioranza relativa del gruppo Rizzoli- Corriere della Sera.
È stato un atto di apprezzabile gentilezza, ma la notizia contiene una realtà alquanto preoccupante. Con una posizione di maggioranza relativa che diventerebbe quasi assoluta nel patto di sindacato azionario, la Fiat avrà la proprietà di tre quotidiani nazionali: il Corriere della Sera, La Stampa, La Gazzetta dello Sport, più una società di libri, molti periodici, molti siti sulla rete, una società unica di pubblicità. Aggiungo che tra gli altri azionisti di Rcs ci sarà anche la Banca Intesa che sottoscriverà gran parte delle azioni inoptate. Forse Elkann avrebbe fatto bene a sottoporre preventivamente l’operazione alla Commissione antitrust visto che sia avvia ad assumere nel mercato mediatico una posizione dominante.
La concorrenza su quel mercato c’è, è molto vivace e presumibilmente aumenterà. Non è dunque questo il dato preoccupante, ma lo è il fatto che un gruppo industriale come la Fiat abbia il controllo d’un gruppo mediatico di quelle dimensioni. Il peso dei suoi interessi sullo Stato e sulle regioni diventerebbe schiacciante, con conseguenze preoccupanti sulla politica economica e sociale del Paese.
La Repubblica 30.06.13