Da un vertice europeo ingessato in attesa delle elezioni tedesche, Enrico Letta porta a casa più di quanto avrebbe potuto sperare. Il premier italiano ha ottenuto di concentrare l’attenzione dei Ventotto (da lunedì anche la Croazia entra nell’Unione) sul problema drammatico della disoccupazione giovanile. I capi di governo sono riusciti a rimpolpare i finanziamenti destinati al mercato del lavoro portandoli da sei a nove miliardi di euro. E la parte italiana di questa torta è uscita rimpinguata: dai quattro-cinquecento milioni inizialmente previsti, fino a un miliardo e mezzo, secondo le stime di Palazzo Chigi. Sono risultati che legittimano la soddisfazione del governo. E dimostrano come, quando si è credibili e coerenti in Europa, si può ottenere risultati senza dover “picchiare i pugni sul tavolo” come vorrebbe la destra italiana, che peraltro a Bruxelles i pugni non li ha mai mostrati e semmai ha preso una lunga e meritata serie di schiaffoni.
La battaglia di Letta per mettere la questione del lavoro al centro delle priorità europee nasce da una preoccupazione sacrosanta: “Consentire ai leader europei di parlare ai propri cittadini di problemi concreti e non di sigle che solo gli eurocrati sono in grado di decifrare”.
Purtroppo, però, non saranno le decisioni, pur favorevoli all’Italia, prese ieri dai capi di governo della Ue a risolvere gli enormi problemi strutturali che il nostro esecutivo si trova ad affrontare. I poteri di cui l’Europa dispone in materia sociale sono pochi. E i fondi che può mettere a bilancio sono ancora meno. Lo riconosce lo stesso comunicato finale dei leader: “gli stati membri devono avanzare con le riforme a livello nazionale, che è quello in cui si trova la maggior parte delle competenze relative al lavoro”.
La Direzione generale della Commissione europea che si occupa di lavoro ha 576 funzionari. Il ministero del lavoro tedesco ne ha novantamila. Questi sono i rapporti di forze. Fare della lotta alla disoccupazione una priorità europea può rendere più umano il volto di Bruxelles. Ma se non si danno all’Europa i mezzi per affrontare un compito di queste dimensioni, si rischia solo di trasformarla ancora una volta nel capro espiatorio di battaglie gi à perdute da altri.
E i mezzi, per ora, scarseggiano. I capi di governo hanno trascorso buona parte della prima giornata di lavoro a cercare di salvare dagli attacchi britannici un bilancio dell’Unione che è comunque ridicolmente inadeguato: meno dell’uno per cento del Pil europeo. Con simili fondi a disposizione, i nove miliardi stanziati per il lavoro rappresentano uno sforzo enorme per un risultato irrisorio.
Per questo, forse, i risultati più significativi di un vertice europeo che poteva decidere ben poco senza creare imbarazzi alla campagna elettorale di Angela Merkel, si possono leggere nella determinazione con cui Letta, Hollande e Rajoy sono riusciti a salvare il progetto dell’Unione bancaria dal fuoco di sbarramento tedesco. Dopo aver imposto a Berlino l’autorità di vigilanza unica affidata alla Bce, gli europei sono riusciti a superare le resistenze della Cancelliera e a mettere in piedi un meccanismo di risoluzione delle crisi bancarie che prevede anche l’intervento diretto del fondo salva-stati e che dovrebbe evitare ai contribuenti di ripianare le perdite accumulate dai banchieri.
Tra il 2008 e il 2011, gli stati europei hanno speso quasi un terzo dei loro bilanci per salvare le banche travolte dalla crisi finanziaria, innescando una recessione che ha portato all’emergenza lavoro. Se le decisioni prese ieri, grazie anche al contributo italiano, riusciranno a frenare un simile salasso in futuro, si sarà fatto di più per favorire la crescita e l’occupazione di quanto potranno mai fare i nove miliardi faticosamente raschiati nelle pieghe di un bilancio inadeguato alle ambizioni europee.
La repubblica 29.06.13