Modificare la Costituzione può significare l’attivazione del potere costituente, che realizza una piena discontinuità sistemica e ordinamentale: è quanto è accaduto, attraverso una guerra civile, nel passaggio dallo Statuto albertino alla Carta repubblicana. Oppure può significare una profonda sostituzione degli assetti materiali della costituzione vigente.
Un ri-orientamento di fatto dei poteri sociali verso nuovi rapporti e nuovi valori. È quanto è avvenuto nel travagliato passaggio dal compromesso keynesiano fra capitale e lavoro che reggeva la fase centrale e finale della Prima repubblica alla flessibilità e alla subalternità normativa del lavoro che insieme alla disciplina di bilancio imposta all’Italia dall’interpretazione austera delle regole dell’euro connota la Seconda repubblica. Infine, può significare la riscrittura, secondo le procedure previste, di alcune parti della costituzione, come si è iniziato a fare per un input governativo che avrà il suo esito conclusivo nella discussione e nella decisione parlamentare, in commissione e in aula.
Al di là del giudizio che si può dare sull’uso dell’art. 138 per modificare (sia pure senza stravolgerle) le stesse procedure della modifica, è chiaro che le trasformazioni della costituzione non possono essere troppo estese, perché se lo fossero si scriverebbe un’altra costituzione, il che non è possibile se non a patto di una lacerazione radicale dell’ordinamento. E non basta salvaguardare i Principi fondamentali della Carta: alla sua essenza qualificante appartengono tutta la prima parte e quelle Sezioni e quei Titoli della seconda in cui si delinea la fisionomia complessiva della repubblica. Ogni intervento non può che essere correttivo di questa fisionomia e dell’impianto complessivo dell’ordinamento, e non può rivoluzionarla.
Quindi, i suggerimenti di modificare la forma di governo da parlamentare a semipresidenziale sono di assai dubbia praticabilità, data la grande distanza che intercorre fra un’ipotesi che colloca il baricentro del potere nelle due teste del potere di governo, con due distinte forme di legittimazione (popolare per il Capo dello Stato che, dotato di caratteristiche iperpolitiche vicine al plebiscitarismo, orienta pesantemente l’azione dell’esecutivo; e parlamentare per il Primo ministro), e un’altra ipotesi, quella italiana, che fa del Parlamento il centro della politica. Se da molti segni si può sostenere che da gran tempo le due Camere hanno perduto centralità, e che quindi perché la crisi del parlamentarismo non blocchi l’intera vita politica del Paese è necessario rinvenire un diverso principio d’ordine che metta in sicurezza il processo politico e l’inerente capacità decisionale, non è per nulla detto che tale principio debba e possa essere il semipresidenzialismo, che sbilancia e riscrive l’intero ordinamento. È infatti sufficiente a tal fine che la figura del Presidente del Consiglio venga rafforzata con l’attribuzione del potere di nomina e di revoca dei ministri, e che si introducano la fiducia politica della sola Camera bassa, eletta a suffragio universale, e la sfiducia motivata. In tal modo il Presidente del consiglio si trasforma in primo ministro, relativamente al sicuro dall’instabilità parlamentare, ma al tempo stesso l’impianto dei poteri dello Stato resta equilibrato, e non va perduto il potere neutro di garanzia, a geometria variabile, del Capo dello Stato eletto dal Legislativo allargato. Si ricordi che la Francia può fare a meno del Capo dello Stato «neutro» solo perché ha nell’amministrazione un potere di fatto stabilizzante, sottratto alla politica e garante della continuità repubblicana; mentre nulla di simile ha il nostro Paese, che politicizzando radicalmente il Capo dello Stato otterrebbe verosimilmente risultati di instabilità sistemica e di assenza di garanzie per la neutralità dell’ordinamento.
E ci si ricordi soprattutto che se è ovvio che il sistema istituzionale non può essere riformato per cambiare il sistema elettorale, dovrebbe essere altrettanto ovvio che se il sistema politico (i partiti) non funziona (perché la costituzione materiale, modificata, è sfuggita di mano alla politica), se non è vitale il nesso fra i cittadini e la cosa pubblica, se questa collassa sotto poteri o privati o esterni al circuito politico nazionale, al controllo dei cittadini, allora il semplice cambiare la costituzione non ridarà forza alla politica; piuttosto, renderà l’Italia simile all’ammalato di Dante, che si gira vanamente nel letto credendo così di sfuggire al male, e «con dar volta suo dolore scherma».
L’Unità 23.06.13