Open data significa: ospedali più efficienti, strade più sicure, inquinamento sotto controllo, politica più trasparente. Decine di migliaia di nuovi posti di lavoro grazie alla crescita di servizi e aziende. È un percorso già abbracciato dai principali Paesi al mondo e al quale è chiamata ora anche l’Italia, in forte ritardo. L’ha chiesto la conferenza del G8, questa settimana, sottoscrivendo i cinque principi del l’Open Data Charter (www.gov.uk/government/publications/open-data-charter). L’ha affermato una direttiva europea sull’accesso alle informazioni nel settore pubblico, approvata in questi giorni dal Parlamento Ue. I Paesi membri hanno ora due anni di tempo per rendere disponibili i dati posseduti dalle pubbliche amministrazioni. Per l’Italia sarà un’impresa epica, dati i ritardi strutturali tecnologici che affliggono la nostra Pa. Lo sanno bene all’Agenzia per l’Italia digitale. Questo nuovo ente adesso avrà il compito – tra molte difficoltà – di traghettare l’Italia verso un futuro di trasparenza digitale che per molti Paesi è già presente.
Lo dice un rapporto di Open Knowledge Foundation, pubblicato proprio in occasione del G8: «Siamo al settimo posto su otto per accessibilità dei dati pubblici. Peggio di noi solo la Russia, che certo non è un faro per trasparenza e democrazia…», dice Ernesto Belisario, avvocato, massimo esperto di Pa digitale –. Il problema non è tanto numerico, quanto qualitativo. Le Pa hanno aperto solo dati poco utili e rilevanti: niente sulla sanità e criminalità, per esempio. Sono pochi anche gli enti che li pubblicano: solo alcune decine. Significa che per la stragrande maggioranza delle Pa, gli open data sono fantascienza». Risultato: «Secondo dati Formez, solo l’1% degli open data viene riutilizzato (ad esempio, per applicazioni e infografiche)», aggiunge.
Bisogna guardare all’estero per capire quello che ci perdiamo. «Nel Regno Unito hanno dati open da due anni sulla qualità delle cure ospedaliere. Il risultato è stato che è diminuita la mortalità del 25 per cento. Il motivo è che tutti ora sanno quali sono gli ospedali più efficienti – continua Belisario –. Il Regno Unito ha scoperto che la trasparenza ha migliorato la Sanità laddove nessuna riforma era prima riuscita». Aggiunge Raimondo Lemma, managing director del Centro Nexa-Politecnico di Torino, pioniere di open data: «In Spagna i dati catastali sono disponibili per tutti senza restrizioni. Da noi solo a soggetti accreditati e a pagamento. Ma queste informazioni, come tutte quelle sulle imprese e sul territorio, possono migliorare la pianificazione di un’attività economica». Conferma Belisario: «Questi dati consentono alle imprese di scoprire i luoghi più adatti dove aprire uno stabilimento produttivo; di vedere dove le Pa sono più efficienti su questo fronte e dove ci sono potenziali clienti».
«In Danimarca hanno pubblicato i dati sui numeri civici delle strade. Può sembrare una banalità ma ne derivano servizi per gestire con più efficienza i soccorsi durante un’emergenza – continua Lemma –. Negli Stati Uniti è già possibile, con gli open data, vedere quanto è vivibile un quartiere, per qualità dell’aria e tassi di criminalità». Questo caso di trasparenza – come altri – dà un duplice vantaggio. Uno è immediato: il cittadino può scegliere meglio. Ma un altro è di lungo periodo: scoperchiare i problemi sprona la Pa a correggerli (se non altro per evitare il crollo dell’edilizia cittadina).
È un incentivo anche alle aziende private. Il portale open data di New York City tiene traccia del rispetto delle norme sanitarie da parte dei ristoranti. Risultato: i casi di salmonella sono scesi al minimo degli ultimi 20 anni e i ricavi dei ristoranti sono aumentati del 9,3%, riporta Forrester Research. «In Italia ci sono stati buoni esperimenti: a Torino dai dati pubblici è nato un’app che dà in tempo reale la disponibilità di parcheggi. Ma c’è tanto da fare, anche solo nel settore infomobilità – dice Lemma –. Per esempio sarebbero appetibili, per la nascita di servizi, i dati geolocalizzati. Potrebbero nascerne app che ci consigliano l’autobus giusto da prendere in quel momento per raggiungere un museo prima della chiusura».
Open data è anche dare più potere ai cittadini rispetto alla macchina pubblica. Un potere di controllo sulle sue azioni, certo (in chiave anticorruzione, per esempio); ma non solo. Può essere anche «il potere di sapere che cosa fa il pubblico con i nostri dati personali», dice Lemma. Sarebbe una virata, insomma, contro una deriva che sta spingendo in senso opposto, come dimostrano le intercettazioni di massa compiute dal governo Usa: cittadini resi sempre più trasparenti agli occhi delle istituzioni. Per tutto questo – concordano Belisario e Lemma – le norme non bastano. In Italia già le Pa sarebbero obbligate a pubblicare alcune categorie di dati, dopo la legge 190 del 2012, ma «è necessario prima lavorare sui database delle Pa – spiega a Nòva24 Agostino Ragosa, direttore dell’Agenzia –. Nei prossimi mesi dobbiamo analizzare i database, standardizzare i significati dei singoli dati in base a principi internazionali, dare regole su quali pubblicare e come farlo».
«Il Governo imponga una roadmap stringente alle Pa per aprire i dati», incalza Belisario. Secondo Ragosa, dagli open data possono venire 50mila posti di lavoro e mezzo punto di Pil in più. Ma è anche un’occasione preziosa per salvaguardare la nostra democrazia. Sarebbe un peccato perderla solo per la storica resistenza della nostra Pa al cambiamento.
Il Sole 24 Ore 23.06.13