È forse giunto il momento per riconsiderare il servizio pubblico non come una semplice azienda per produrre pubblicità e profitto, da risanare sul piano economico e di bilancio, quanto piuttosto come una risorsa e un investimento da affiancare ad altre risorse dello stato: la scuola e la ricerca. (da “Televisione” di Carlo Freccero – Bollati e Boringhieri, 2013 – pagg. 144-145)
Con la drastica e contestata decisione di chiudere d’autorità la tv pubblica, senza neppure interpellare il Parlamento, il governo greco s’è assunto la responsabilità di mettere in discussione un modello di televisione che rappresenta una specificità europea. E ora l’esecutivo di Samaras è costretto a tornare suoi propri passi, per annunciare la riassunzione temporanea di duemila dipendenti ed evitare addirittura di entrare in crisi. Il “caso Ert” non riguarda perciò soltanto la Grecia, ma coinvolge l’intera comunità dell’Unione e quindi anche noi cittadini italiani, con la Rai e tutti i suoi problemi di riforma e di “governance”.
È piuttosto stupefacente che, anziché riferirsi al modello della mitica Bbc inglese, della tv pubblica tedesca, francese o perfino spagnola, il nostro establishment economico-finanziario d’ispirazione liberista o iperliberista abbia colto al volo l’occasione per riproporre una privatizzazione tanto avventurosa quanto impraticabile. E va registrato con soddisfazione l’esordio di Roberto Fico, neo-presidente della Commissione parlamentare di Vigilanza in nome e per conto del Movimento 5 Stelle, che ha lanciato subito un altolà preventivo: “La Rai non si svende, meglio rinunciare ai caccia F 35”.
Forse sarebbe stato preferibile che Fico dicesse senz’altro “la Rai non si vende”. Ma accontentiamoci pure per il momento di questo impegno, auspicando magari che il “bagno istituzionale” possa favorire un atteggiamento più responsabile e costruttivo tra i parlamentari di Beppe Grillo.
Se c’è un Paese in Europa e nel mondo in cui la tv pubblica può e deve avere un ruolo e una funzione, questo è proprio l’Italia berlusconiana o post-berlusconiana del “regime televisivo”, del duopolio Rai-Mediaset, della concentrazione televisiva e pubblicitaria, del conflitto d’interessi. Con tutti i suoi limiti e difetti, ma anche con le sue risorse e competenze professionali, tecniche e manageriali, la Rai resta pur sempre la nostra più grande aziende culturale e rappresenta per di più la “pietra angolare” dell’intero sistema dell’informazione nazionale. Al di là dei suoi cancelli, da qui dipende essenzialmente la possibilità di favorire quel “riequilibrio delle risorse” a cui si richiamò il presidente Carlo Azeglio Ciampi nel messaggio alle Camere con cui respinse la scellerata legge Gasparri, ancora in vigore e in attesa di abrogazione, a favore di tutti gli altri media, vecchi e nuovi.
Per la sua storia e per lo spazio che occupa nel circuito dell’informazione, della cultura e dell’intrattenimento, la Rai costituisce un asset strategico in un settore nevralgico della vita collettiva per la formazione e l’aggregazione del consenso. Se la comunicazione in generale, e quella televisiva in particolare, è “l’acqua della democrazia”, allora bisogna concludere che il servizio pubblico dev’essere inteso e gestito come un “bene comune”. E per restituirlo dunque alla sua originaria funzione pedagogica, secondo il modello europeo, va riformato, ristrutturato, rilanciato, non venduto né tantomeno svenduto: anche perché, come osserva in un paper Maurizio Mensi, professore di Diritto dell’informazione e della comunicazione all’Università Luiss di Roma, “il canone non costituisce una specificità italiana” e poi “l’eventuale privatizzazione della Rai non comporterebbe affatto l’automatica soppressione del canone d’abbonamento”, ma questo passerebbe eventualmente ai privati che subentrassero nella concessione.
Dal rapporto di Symbola e Unioncamere che verrà presentato la prossima settimana, risulta nell’ultimo anno una crescita del 3,3% delle imprese che compongono il nostro sistema produttivo culturale, in controtendenza rispetto al resto dell’economia. E a conferma di questa funzione anticiclica, nel 2012 il suo valore aggiunto ammonta a 75,5 miliardi di euro, pari al 5,4 del totale. La cultura, dunque, non solo “si mangia” ma alimenta anche attività come il commercio, il turismo, i trasporti e perfino l’edilizia o l’agricoltura.
Sarebbe un grave errore cedere un patrimonio collettivo come la Rai, per raccogliere tre o quattro miliardi di euro, secondo le stime di Mediobanca. Bisogna invece investire sull’informazione e sulla cultura, riqualificando il servizio pubblico radiotelevisivo in quanto volano di tutto questo comparto. A condizione, naturalmente, di liberarlo definitivamente dal giogo della partitocrazia e di restituirlo ai cittadini, come reclama la proposta di legge popolare sostenuta da “Move On Italia” e da altre organizzazioni della società civile.
La Repubblica 21.06.13