L’«eccezione culturale», ormai lo sappiamo bene, è l’impostazione che nega che la libertà di commercio un dogma dei nostri tempi possa estendersi all’infinito, comprendendo anche la cultura. Gli artefatti culturali (libri, audiovisivi, musica, opere d’arte) non sarebbero dunque da considerarsi una merce, o soltanto una merce, da scambiare e vendere senza frontiere al prezzo più basso per il consumatore, ma un elemento che identifica le culture nazionali ed è protetto dalla totale invasione dei prodotti dei mercati più forti perchè serve alla crescita (qualche volta alla sopravvivenza) di una comunità. Se invece si considerano tali prodotti soltanto generi dell’intrattenimento, come i gelati o le racchette da tennis, allora è applicabile il libero scambio, e presumibilmente le industrie più forti invaderanno i mercati minori, come avviene nel mercato
dei computer o delle automobili. Dal 1995 è stata costituita la Wto, acronimo anglosassone per la Organizzazione mondiale del commercio, che ha lo scopo di aprire grazie a complessi negoziati bilaterali tutti i mercati al libero scambio, abbattendo le barriere doganali, in nome del vantaggio del consumatore che troverebbe così la disponibilità di prodotti al prezzo più basso: anche se per andare al mercato dovrà fiancheggiare tante fabbriche vuote e chiuse perchè messe fuori mercato dai prodotti delle imprese di nazioni più forti. Una ideologia e un negoziato internazionale che si è ampiamente diffuso: l’Europa oggi cerca di resistere ma al suo interno il libero scambio è la regola.
Fin dall’inizio il Paese più acceso sostenitore del libero scambio sono stati gli Usa; i francesi da allora sono sostenitori e l’Italia li ha sostenuti della necessità di fare un’eccezione per la cultura. Grazie a questa eccezione, all’interno dell’Europa, ciascun Paese può finanziare il proprio servizio pubblico televisivo (la Rai, la televisione pubblica tedesca o polacca o, con minore successo, la Tv greca) in deroga alla liberalizzazione dei mercati e alla libera conoscenza. Finanziare il servizio pubblico con aiuti di Stato fa parte dell’eccezione culturale e non è una forma di concorrenza sleale come hanno sempre sostenuto i grandi network privati e i loro rappresentanti a Bruxelles. Ma l’Europa non è tutto il mondo e i mercati culturali più aggressivi sono oggi gli Stati Uniti e domani l’Asia.
Il problema arriva puntualmente adesso nel negoziato a Lussemburgo tra i ministri del Commercio estero dei Paesi europei e gli Stati Uniti, perchè si devono stabilire le aree oggetto dei negoziati di libero scambio. La Francia come sempre si oppone, altri Paesi sono più morbidi, l’Italia è tendenzialmente per l’eccezione culturale con alcune eccezioni: per esempio il ministro Emma Bonino. Gli Stati Uniti mettono sempre sul tavolo la quantità di posti di lavoro (si parla di 400 mila) che l’estensione del libero scambio porterebbe in Europa: argomenti molto concreti che assumono talvolta il tono del ricatto, ma oggi le esportazioni degli Usa per film e altri prodotti culturali verso l’Europa sono quasi 10 volte le esportazioni europee.
Il rischio è che l’Italia abbia una posizione debole, sfumata, dove la difesa dell’eccezione culturale è limitata agli operatori culturali o ad alcuni ministri, come il titolare dei Beni culturali Bray e altri (Antonio Catricalà) con il sostegno del presidente Napolitano. La Francia sarebbe lasciata sola per non pregiudicare le trattative commerciali con gli Usa, smentendo la posizione che fu del Governo Prodi nel 1996. Faremmo una brutta figura ma soprattutto sarebbe compromessa la sopravvivenza di un settore portante della nostra cultura, e della nostra industria, di fronte a quella americana. Un pessimo comportamento che siamo ancora in tempo ad evitare.
L’Unità 16.06.13