La Corte di Cassazione ha confermato le sette condanne disposte in Appello ad agenti di polizia, carabinieri e infermieri per le violenze nella caserma di Bolzaneto durante il G8 di Genova nel 2001. Ma nessuno, tra indulto e attenuanti, finirà in carcere.
Sarà che si sente ancora l’odore del sangue misto agli umori e alla pipì. Che non si possono scordare i racconti e le immagini di quei ragazzi messi nudi contro il muro in piedi, gambe divaricate, così per ore. O delle ragazze umiliate e minacciate di stupro. Che rimbombano nelle testa gli ordini: «Canta faccetta nera», «viva il Duce», «un-due-tre viva Pinochet». Gli urli della ragazza a cui fu strappato il piercing dal naso.
Per tutto questo, scritto in migliaia di pagine di atti processuali, la sentenza con cui ieri la Cassazione ha chiuso definitivamente la mala storia del G8 di Genova, capitolo torture nella caserma di Bolzaneto, è inconsistente, una beffa, un’offesa a un paese che si dice democratico. Anche un pericoloso precedente la cui morale è che omertà e spirito di corpo vincono sempre rispetto ai fondamenti democratici.
Dopo sette ore di camera di consiglio la V sezione penale della Cassazione ha confermato le sette condanne disposte in Appello ad agenti di polizia, carabinieri, agenti penitenziari e infermieri accusati di aver picchiato, umiliato e offeso (lesioni personali aggravate) giovani raccattati per caso nelle strade di Genova, quindi anche persone che non avevano avuto alcun ruolo nelle devastazioni, Confermate anche le quattro assoluzioni di altrettanti uomini delle forze dell’ordine. Nessuno, tra indulto e attenuanti, finirà in carcere. Tutti rischiano una sanzione disciplinare da parte della loro stessa pubblica amministrazione (possiamo immaginare di quale intensità). Ulteriore beffa: rendendo definitiva la condanna, la Cassazione ha anche ridotto i risarcimenti che in ogni caso saranno riconosciuti in sede civile, cioè chissà come e quando. La sentenza di secondo grado (5 marzo 2010) aveva stabilito dieci milioni di risarcimenti da suddividere tra le 150 vittime ammesse tra le parti civili. Ora non ci sono più neppure questi.
Per comprendere fino in fondo l’insopportabile beffa di queste sentenza, occorre ricordare almeno un paio di cose. La prima: erano 44 gli imputati quando è cominciato il processo, tutte posizioni definite e riscontrare con testimonianze coincidenti non solo delle vittime ma anche di qualche agente in servizio che s’è messo la mano sul cuore, ha ascoltato la coscienza e ha parlato. Solo che per 37 imputati è scattata, dopo 12 anni di processi, la prescrizione. Perché il vizio della dilazione nei processi non è appannaggio esclusivo di Berlusconi.
La seconda: la pochezza, quasi insussistenza delle condanne, nasce dal fatto, più volte denunciato dai pm sia in primo che in secondo grado, che il nostro codice penale non contempla il reato di tortura. «E quelle avvenute alla caserma di Bolzaneto erano decisamente torture» hanno detto i magistrati nelle loro requisitorie.
«Gli agenti, dalla finestra della cella, ci insultavano: “puttane”, “troie”, “ora vi scopiamo tutte”» ha raccontato in aula una ragazza di 25 anni arrestata la sera del 20 luglio 2001. La sua deposizione portò alla luce tutto il repertorio di insulti e umiliazioni sessiste subito dalle ragazze. «Gli agenti dicevano che le avrebbero dovute stuprare come in Bosnia» è riportato in un altro verbale. Minacce di stupro che i pm hanno voluto sottolineare nella memoria. «Come in ogni caso di tortura, avvennero grazie all’impunità percepita, ovvero quel meccanismo fatto di omissioni per cui i responsabili non vengono puniti e le vittime terrorizzate hanno paura di denunciare i maltrattamenti subiti».
E che dire del personale medico penitenziario? Un altro verbale: «Al medico avevo raccontato che mi avevano rotto il labbro, ma lui disse che me l’ero fatto da solo».
Per come s’erano messe le cose in questo processo, per i familiari è già una buona cosa che alla fine ci siano state sette condanne e tutti gli altri prescritti (quindi non assolti). «Significa che le torture e i soprusi sono avvenuti, solo che non abbiamo il reato per condannarli» diceva ieri Enrica Bartesaghi, mamma di una delle giovani finite a Bolzaneto. Adesso i familiari chiedono l’introduzione del reato di tortura e «le scuse da parte dello Stato perchè è lo Stato che ha umiliato e abusato dei nostri figli».
Si chiude, nei fatti, con questa sentenza, la pagina nera del G8 di Genova. Di quei giorni in cui, è scritto in sentenza, «sono stati sospesi di diritti democratici». Il bilancio è insufficiente. Hanno pagato, molto, i funzionari di polizia che fecero irruzione alla Diaz. Ma solo alcuni e, possiamo dire, forse quelli meno colpevoli di altri. Storia drammatica. Da cui non è nato alcuna forma di riscatto.
L’Unità 15.06.13