Dal ponte di Galata a Gezi Park ci sono tre chilometri e mezzo. Tre minuti di funicolare per arrivare all’imbocco di Istiklal Caddesi, la strada che sfocia nella piazza Taksim. In basso, verso il Corno d’oro, il brulicare umano di sempre: traffico, cantieri aperti, tram modernissimi accanto a vecchi carretti di ambulanti. In alto, la via commerciale della Istanbul moderna. Tre minuti di funicolare sotterranea che sono stati il simbolo di una distanza tra due mondi completamente separati: da una parte la vita quotidiana assolutamente normale, dall’altra le scene di guerriglia urbana riprese dalle televisioni di tutto il mondo. La raccomandazione era di non salire con la funicolare fino là, per l’aria resa irrespirabile dai lacrimogeni, per gli scontri in corso. Fa un certo effetto vedere la piazza Taksim “liberata” dai manifestanti e il contiguo Gezi Park, dove ancora tende e striscioni colorati spiccano tra gli alberi. Quegli alberi che sono oggi il simbolo di una rivolta forse più grande di quanto ci si aspettasse. C’è aria di smobilitazione, ma si avverte anche una tensione latente. Al centro della piazza, un uomo anziano con un improbabile impermeabile di nylon giallo sta in piedi immobile e tiene in alto una grande bandiera turca. La scalinata che dalla piazza sale all’entrata del parco è ancora chiusa quasi completamente dalle barricate, c’è uno stretto passaggio attraverso il quale però le persone circolano liberamente, tra striscioni e cartelli dei più diversi schieramenti. Dentro, chi raccoglie i sacchi a pelo, chi smonta l’accampamento, chi discute seduto in cerchio.
La via Istiklal, di solito affollata, riprende lentamente ad animarsi appena poche ore dopo gli scontri tra la polizia, armata di caschi, idranti e lacrimogeni, e migliaia di giovani, arrivati qui da tanti quartieri della Istanbul metropolitana, attrezzati con mascherine antipolvere ed elmetti da cantiere. Si ha l’impressione che il fuoco covi sotto la cenere e che questa giornata di tregua, durante la quale Erdogan si è impegnato a dialogare, non sia che una tappa di un percorso più lungo a venire. Il movimento appena nato per difendere gli alberi di Gezi Park minacciati dalla costruzione di un gigantesco centro commerciale (l’ennesimo a Istanbul) è qualcosa di completamente nuovo in questo contesto. Anche all’occhio di un turista senza particolari convinzioni ambientaliste, l’idea che questa macchia di verde nel pieno centro cittadino scompaia appare del tutto illogica. Non sono soltanto concezioni urbanistiche diverse a confrontarsi aspramente, ma due filosofie di vita, in questa Turchia che cresce a ritmi impressionanti ma fatica a trovare una sintesi tra due mondi culturalmente diversi. Per anni la laicità, imposta anche con la forza dell’esercito, ha sottomesso le istanze religiose della popolazione a maggioranza musulmana; oggi le parti si sono invertite e un governo di ispirazione religiosa sottomette la moderna laicità dei giovani che guardano all’Europa e alla democrazia. Certamente Erdogan gode di una maggioranza elettorale riconosciuta, ma sa anche essere totalmente irrispettoso e arrogante di fronte a questi giovani.
La distanza tra i due mondi si avverte proprio guardando al focolaio di piazza Taksim da una parte e l’umanità immersa nelle quotidiane occupazioni dall’altra, in tutto il resto della città. C’è però un elemento che sembra unire le due anime di Istanbul nel sostegno morale alla protesta per l’abbattimento degli alberi: alle nove di sera – e poi ancora più volte nel corso della serata – le luci delle case a Beyoglu, il vasto quartiere esteso dalle sponde del Bosforo in direzione nord ovest dove tutto questo si svolge, si accendono e si spengono, e dalle finestre aperte delle case la gente batte sulle pentole con gli attrezzi da cucina, facendo salire verso il cielo un costante martellare sonoro, dal timbro metallico, simile al rumore delle cicale che cantano d’estate proprio tra gli alberi che il progetto edilizio del governo vorrebbe abbattere.
A Gezi Park c’era e c’è ancora una piccola postazione di giovani simpatizzanti di Slow Food che durante l’occupazione hanno realizzato un orto. Oggi lo hanno smantellato, preparandosi una via di fuga in vista dello sgombero finale.
Defne Koryurek, leader di Slow Food a Istanbul, mi dice: «È stato un gesto quasi spontaneo realizzare una biblioteca e un orto, basati sulla collaborazione e sulla voglia di condivisione. Quest’orto non ha padre né madre, ma è figlio del lavoro di una comunità intera. Per anni, come gruppo, ci siamo opposti ai progetti faraonici di questa città: il terzo ponte sul Bosforo, il nuovo aeroporto nella zona Nord (il più grande del mondo, ndr), e il centro commerciale che dovrebbe prendere il posto di Gezi. Sappiamo sempre cosa dire quando ci opponiamo a qualcosa. Più difficile è portare esempi virtuosi e concreti. L’orto di Gezi rappresentava il nostro modello di sviluppo, ciò che vogliamo fare con la nostra terra. E lo abbiamo curato assieme ai nostri figli, con loro abbiamo piantato semi e piante, perché siano loro a raccoglierne i frutti».
Refika Kortun ha diciotto anni, una generazione in meno di Defne. Racconta di essersi unita ai manifestanti per difendere il parco: «Gezi è occupato dai nostri sogni. L’energia che vivo in questi giorni è splendida, anche se ho paura. Qui abbiamo creato una comunità vera, come mai avevo sperimentato. Una comunità che è nata su Twitter e Facebook e che lì continuerà, anche se dovessero cacciarci da qui».
Guardare negli occhi questi giovani, la loro determinazione, la loro passione è guardare a una nuova Turchia, capace di dare valore a cose semplici ma importanti, come gli alberi di un parco.
La Repubblica 14.06.13