Il cortocircuito operato dall’infausto augurio della leghista padovana ai danni di Cécile Kyenge è istruttivo. Impone una riflessione che non si limiti a rilevare, riducendola a fenomeno marginale e individuale, la grossolana maleducazione di una persona.
Una persona che non è in controllo né dei propri umori né delle proprie parole. Con quella frase, la signora (signora?) ha assimilato tutti i maschi neri a stupratori e tutti gli stupratori a neri. Chi chiede rispetto per i neri è quindi automaticamente complice di stupratori, tanto più se è nera essa stessa e rivendica orgogliosamente l’esserlo. Per indurla a ragionare, e per «farle abbassare le arie», l’unica è farle subire la violenza e l’umiliazione di uno stupro.
Questo corto circuito è esemplare, nella sua forma estrema, dell’atteggiamento razzista. Il diverso è sempre pericoloso e peggiore. Non conta che gli stupratori (o i ladri, o i violenti) appartengano a tutte le etnie e i colori della pelle. Non conta neppure che la maggior parte degli stupri, come dei femminicidi, avvengano per mano di un parente o conoscente. Lo straniero, il diverso da sé, tanto più se identificabile anche dal colore della pelle o da altri tratti fisici ben riconoscibili, è l’emblema di ogni pericolo e nequizia. Anche l’ultimo passaggio – l’augurio che anche Kyenge diventi vittima di uno dei “suoi” – fa parte della stessa logica. Donna e nera, e per giunta ministro: il soggetto perfetto per diventare il capro espiatorio di ogni frustrazione, l’incarnazione della vendetta contro le proprie paure.
Il fatto che sia una donna ad augurare a un’altra, sia pure vista come estranea e nemica, di essere stuprata, mostra quanto il razzismo, la costruzione dell’altro come nemico, produca una reificazione dei soggetti, di cui non si coglie né l’individualità né l’umanità e per i quali non si può provare neppure solidarietà. È un’esperienza ben nota nelle guerre, specie etniche, quando la diversità – religiosa, etnica – viene ipostatizzata al punto di cancellare la comune, sottostante umanità.
Dolores Valandro, la leghista padovana, probabilmente non sa che atteggiamenti come il suo non giustificano solo maltrattamenti e discriminazioni contro i neri (o i romeni, o qualche altro gruppo etnico-nazionale visto come pericoloso e nemico). Chi ha questi atteggiamenti spesso ha una visione delle donne (anche delle “proprie”) come esseri umani inferiori, da abusare a piacimento, anche fino al femminicidio. Quindi mettono in pericolo anche lei, sia pur “bianca” e italiana, ad opera non dei temuti “neri”, ma dei suoi simili, soprattutto ideologicamente e politicamente. Le ricerche sul razzismo, infatti, segnalano che c’è un nesso stretto tra razzismo estremo e sessismo altrettanto estremo.
Fanno bene i responsabili della Lega a prendere le distanze dalle affermazioni della propria iscritta, come fecero pochi mesi fa con Borghezio. Ma dovrebbero anche interrogarsi sul tipo di cultura che hanno lasciato crescere ed hanno spesso legittimato in tutti questi anni, con il loro linguaggio scomposto, le invettive contro gli immigrati, condite da compiaciuti vezzi celoduristi. È un lavoro di riflessione critica che peraltro ci riguarda tutti, nella misura in cui abbiamo troppo a lungo sopportato atteggiamenti linguisticamente e concettualmente violenti che, invece di contrastarlo, hanno creato un terreno favorevole a un clima relazionale e culturale pericoloso per tutti, in particolare per le donne, di ogni colore e posizione sociale. I razzisti estremi in Italia sono una minoranza, anche se rumorosa. Ma il razzismo strisciante, selettivo verso questo o quel gruppo, è molto più diffuso e non meno problematico.
La Repubblica 14.06.13
******