Vent’anni dopo la Seconda Repubblica è finita. Questo mi sembra il senso “politico” di questa consultazione. Che ha le specificità e i limiti di un voto “locale”, ma assume comunque un significato politico “nazionale”.
Non solo perché ha coinvolto quasi 7 milioni di elettori, in 564 comuni. Tra cui, 16 capoluoghi di provincia e 92 città con oltre 15 mila abitanti. Ma perché, a mio avviso, conferma la svolta dalle elezioni politiche di febbraio. Segna, cioè, la fine della “rivoluzione” partita vent’anni fa, nel 1993, proprio dalle città. Dove, per la prima volta, si era votato “direttamente” per il sindaco. Quando, prima del ballottaggio, Silvio Berlusconi, “sdoganò” i post-fascisti, annunciando che, se, vi avesse risieduto, a Roma avrebbe votato per Gianfranco Fini. Ma la “rivoluzione” si produsse e riprodusse, soprattutto, nel Nord. In particolare, a Milano. La città di Mani Pulite dove Marco Formentini, candidato della Lega, divenne sindaco. Dove Silvio Berlusconi fondò Forza Italia, il suo “partito personale” e “aziendale”. Che l’anno seguente vinse le elezioni politiche. Aggregando Alleanza Nazionale, nel Centro Sud, e la Lega nel Nord. Così Milano conquistò l’Italia. E la “questione settentrionale” divenne “questione nazionale”. Il capitalismo popolare, della piccola impresa, rappresentato dalla Lega, insieme al capitalismo mediatico, finanziario e immobiliare, interpretato da Berlusconi. Conquistarono l’Italia. Complice l’Alleanza Nazionale del Sud.
Vent’anni dopo, quel percorso sembra finito. Il Forza-leghismo (come l’ha definito Edmondo Berselli) ha perduto la sua Bandiera. Il Nord. Il territorio. Il Centrodestra, in queste elezioni, è stato “s-radicato”, proprio dove era più “radicato”. Nei luoghi della Lega. A Treviso, per prima. La città di Gentilini — e del governatore Zaia. Ma la Lega ha perduto anche nelle città vicine a Verona. Feudo del Nuovo leghismo di Tosi.
Tutto il Centrodestra, però, si è “s-radicato”. Ovunque. I dati, al proposito, sono impietosi. Nei 92 comuni maggiori dove si è votato, prima di queste elezioni, il Centrodestra aveva 49 sindaci (di cui 2 la Lega da sola). Nel Nord “padano”, in particolare, amministrava 16 comuni maggiori (compresi i 2 della Lega), sui 28 al voto. Oggi la Lega è scomparsa. E il Centrodestra, guidato dal Pdl, ha “mantenuto” solo 14 città maggiori, in Italia, cioè meno di un terzo. E 3 nel Nord. In pratica: è quasi sparito. In questi giorni ha perduto le roccheforti residue. Da ultima, Imperia – il feudo di Scajola. Per prima – e soprattutto – Roma. La Capitale. Il Centrodestra è affondato anche nel Centrosud e nel Mezzogiorno. Sconfitto a Viterbo, e nei principali capoluoghi siciliani dove si votava. A Messina, Catania, Ragusa, Siracusa. È questa la principale indicazione “politica” di questo voto “ammi-nistrativo”: la sconfitta del Centrodestra. Insieme al declino – simbolico e politico – del territorio. Eppure non è stato sempre così. Cinque anni fa, appena, il centrodestra governava ancora in alcune importanti capitali. A Milano, Palermo, Cagliari. Roma. Ora le ha perdute. Tutte. Cos’è successo, in questi ultimi anni? Ha pesato, sicuramente, il declino dei riferimenti sociali ed economici: l’impresa e gli imprenditori – ma anche i lavoratori – della piccola impresa. Il capitalismo finanziario e speculativo. La crisi globale li ha stremati. E li ha posti reciprocamente in conflitto. Inoltre, l’invenzione del Pdl non ha “coalizzato” Fi e An. Li ha svuotati entrambi. Ne ha fatto un solo, unico contenitore “personale”. La Lega, invece, si è “normalizzata”. È divenuta “romana”. Così, al Centrodestra è rimasta solo l’immagine – peraltro sbiadita – del Capo. Berlusconi. In ambito politico nazionale. Mentre a livello locale non è rimasto praticamente nulla.
La svolta oltre la Seconda Repubblica è sottolineato dal crescente peso dell’astensione, cresciuta notevolmente, rispetto alle elezioni precedenti. A conferma che la messa è finita. In altri termini: il voto non è più una fede. Così, occorrono buone ragioni per votare un partito o un candidato. E, prima ancora, per andare a votare. Negli ultimi vent’anni, il non-voto è stato, in parte, assorbito dal voto di protesta. Intercettato dalla Lega, ma anche da Berlusconi. Canalizzato, alle recenti elezioni politiche, da Grillo e dal M5S. In questo caso non è avvenuto. Al primo e a maggior ragione al secondo turno. Per ragioni fisiologiche – non ci sono preferenze da dare, i candidati si riducono a due, molte sfide appaiono segnate. Ma anche perché “non votare”, in una certa misura, è un modo per votare. E conta molto, visto lo spazio che gli viene dedicato dagli attori e dai commentatori politici.
Alla fine della Seconda Repubblica, così, riemerge il Centrosinistra. E soprattutto il Pd. Considerato in crisi, dopo il voto di febbraio. Ma soprattutto dopo-il-dopo-voto. Fiaccato “da” Berlusconi – regista delle larghe intese. “Da” Grillo e dal M5S – vincitori delle elezioni politiche. In questa occasione, il Pd, insieme al Centrosinistra, ha vinto ovunque. O quasi. In tutte e 16 le città capoluogo. In 21 comuni maggiori del Nord (su 28), 10 (su 12) nelle regioni rosse e in 22 nel Centro-Sud (su 52). Mentre il Pdl si è sciolto e la Lega è scomparsa. Mentre il M5S ha eletto il sindaco a Pomezia — seconda città del MoVimento, per peso demografico, dopo Parma. E va in ballottaggio a Ragusa. In altri termini, “resiste” ed “esiste”, ma non avanza, come nell’ultimo anno.
Un altro segno del cambio d’epoca. Perché se il territorio declina, come bandiera, torna ad essere importante come risorsa politica e organizzativa. E favorisce i “partiti” che ancora dispongono di una struttura e di persone credibili e conosciute, presso i cittadini. In altri termini, il Pd è un partito personalizzato, a livello locale. Ma è diviso e impersonale, a livello nazionale. Gli altri, il Pdl e lo stesso M5S, sono partiti personali in ambito nazionale. Ma senza basi locali. Così la competizione elettorale diventa instabile e fluida, come quel 50% di elettori senza bussola e senza bandiera. Per questo nessuno può né deve sentirsi al sicuro. Non il Pdl, partito personale e senza territorio, gregario di una Persona alle prese con troppi problemi personali. Ma neppure il Pd. Partito personalizzato, sul territorio, ma im-personale, a livello nazionale. La Seconda Repubblica bipolare fondata “dalla” Lega e “su” Berlusconi: è finita. Ma la Prima Repubblica, fondata “dai” e “sui” partiti, non tornerà. Da oggi in poi, ogni elezione sarà un “salto nel voto”.
La Repubblica 12.06.13
******
“La felicità del naufrago”, di FRANCESCO MERLO
Ha perso e dice che le elezioni sono inutili, ma festeggia la vittoria a Assimisi e a Pomezia. È l’unico leader che non usa la dialettica ma la “trialettica” lo strambo Grillo, protagonista dello scialo, il più grande e rapido spreco della storia.
OVVIAMENTE non è il primo che, stremato e dissanguato, si dispera e dà la colpa al sistema: «Le elezioni sono oscene e non servono a niente». E non è neppure il primo che nega l’evidenza della sconfitta e festeggia perché, pur essendo il Movimento quasi cancellato, «Mario Puddu è il nuovo sindaco di Assemini, provincia di Cagliari, e Fabio Fucci è il nuovo sindaco di Pomezia, provincia di Roma». E però Grillo è il primo che fa tutte e due le cose insieme, il primo che al tempo stesso si dispera e festeggia, il primo che mentre proclama «che le elezioni in Italia non cambiano mai nulla» annunzia che «il cammino del Movimento 5 Stelle all’interno delle istituzioni è lento, ma inesorabile».
Insomma, se gli altri si accontentano di due minuti di faccia tosta, lui se ne prende quattro, perché di facce toste ne ha appunto due. La prima faccia tosta è antisistema: «La vittoria (degli altri ndr) è di Pirro», «questo o quello pari sono», «il tempo delle elezioni è come il tempo dei Pavesini» , «sale il disgusto» … La seconda faccia tosta è invece celebrativa e trucca i risultati.
A Catania, a Messina, a Siracusa,… dove era
addirittura il primo partito, ora il movimento non ha guadagnato neppure un rappresentante nei consigli comunali, e però «Mario e Fabio ad Assimisi e a Pomezia… ». Sembra la gioia del naufrago che dopo aver distrutto la sua preziosissima barca si sente all’asciutto perché, in mezzo al mare in tempesta, ha messo i piedi su una tavoletta.
«È la gioia dello scialo come vita marcita, gesto inconsulto, malessere cieco» disse Vasco Pratolini per spiegare appunto il suo “Scialo”, che fu il romanzo (romanzo?) del grande spreco di una generazione, quella che si regalò al fascismo. E Pratolini forse prefigurava Grillo nel dilapidatore italiano «senza l’intimo coraggio necessario per guardarsi fino in fondo come realmente è». Infatti Grillo, cieco e sordo a stesso, non si vede e non si sente e sinceramente si stupisce quando viene contestato da qualche parlamentare che in via ordinaria controllava perché l’eletto dal popolo «era consapevole — ha scritto ieri — che l’opportunità unica che gli è stata offerta non è per i suoi meriti».
Dunque ieri, in preda al suo sincero stupore da scialo, Grillo ne ha cacciato un altro, Adele Gambaro, uno di quei parlamentari che «invece crede di essere diventato onorevole per chissà quali divine investiture, e usa il progetto di milioni di italiani per promuovere se stesso e assicurarsi un posto al sole». Insomma «non vale proprio niente». Per favore «si accomodi fuori ».
La Gambaro lo aveva messo a nudo nel tg di Sky ma aveva messo a nudo anche se stessa: «Stiamo pagando i toni e la comunicazione di Grillo, i suoi post minacciosi. Mi chiedo come possa parlare male del Parlamento se qui non lo abbiamo mai visto. Noi facciamo il lavoro e lui ci mette in cattiva luce. Il problema del Movimento è Grillo…. Credo che altri abbiano le mie stesse idee…». Sono banalità sacrosante. Ma non è la Gambaro che raccontandole ha fatto saltare le regole. Non è il suo coraggio che ha liberato la verità del movimento nel movimento È stato “lo scialo”.
Neppure Pratolini era arrivato a immaginare uno scialatore così rapido e radicale nello sfinirsi, nel dissanguarsi, nel passare dal 30 per cento al tre per cento. Davvero uno scialo così enorme e così rapido non si era mai visto. Grillo ha esibito la forza e l’ha subito distrutta. La sua non è una sconfitta ma una dissipazione senza uguali nella storia d’Italia che pure è ricca di ardenti fuochi fatui, come l’uomo qualunque di Giannini e la Lega di Bossi, e di grandi dilapidazioni di consenso, come Mario Segni e Achille Occhetto, pur sempre piene di dignità benché veloci. Ma solo Grillo in appena tre mesi è stato quasi cancellato in quella Sicilia che aveva conquistato con una strepitosa guerra-lampo. Anche a Ragusa, unica città dove il grillino andrà al ballottaggio, il consenso è passato dal 40 al 15 per cento. E si sa che la Sicilia anticipa, amplifica ed è la Cassazione delle sorprese elettorali.
Lo scialo, dunque. Sino a ieri davvero Grillo li controllava tutti con il pugno di ferro, anche la Gambaro. Ma dopo lo scialo non potrà più tenere in riga i suoi soldatini perché, per dirla con i paradossi del linguaggio grillesco, per dirla cioè come la direbbe Grillo, ormai il movimento ha più parlamentari che voti.
Perciò, mentre butta fuori la Gambaro, Beppe Grillo comincia a buttare fuori anche se stesso. Sfidandoli tutti, si sfida: «Vorrei sapere cosa pensa il Movimento 5 Stelle, vorrei sapere se sono io il problema».
Certo, il gran finale dello scialo vorrebbe che anche Grillo come la Gabanelli e Rodotà venisse via via maltrattato e infine tradito come un amante indegno. La sceneggiatura vorrebbe che il gran fustigatore del web scomparisse fustigato nel web. E vedere tutti quei parlamentari vagare in cerca d’autore sarebbe ancora scialo: crudeltà di scialo.
Beppe Grillo che dissipa se stesso fino a rendersi inutile, fino a rendersi vano? In fondo è Montale che ispirò Pratolini: «La vita è questo scialo / di triti fatti, vano / più che crudele».
La Repubblica 12.06.13