Dal voto buone notizie. Gli italiani premiano il Pd, gli dimostrano fiducia, nonostante le catastrofi elettorali e postelettorali; del governo con il Pdl danno la colpa al Movimento Cinque Stelle, mentre ai democratici riconoscono semmai spirito di responsabilità; della destra danno un giudizio molto negativo.
Dunque, non siamo morti e anzi siamo più vivi e vivaci di Grillo e di Berlusconi. In parte è vero, certamente; ma è anche vero che qui c’è, invece, parecchio da riflettere. La legittima soddisfazione per i risultati conseguiti e per la fiducia di cui il Pd ancora gode, a livello amministrativo, non deve infatti far dimenticare l’altro dato, forse ancora più importante e anzi strategico, di questo passaggio elettorale: che metà dei cittadini non partecipa al voto. Una circostanza non facilmente aggirabile come una curiosità o come una casualità.
Si può sostenere, al riguardo, e lo si è fatto, che il voto locale è sempre meno partecipato di quello politico nazionale; che nelle grandi democrazie del Nord e dell’Ovest basse percentuali di affluenza sono la norma, e che ciò, lungi dall’essere un dramma, va letto come un assenso di fatto alla vita civile e alle sue regole: il disincanto della democrazia non è quindi di per sé un suo rifiuto. Noi latini dal sangue caldo dobbiamo insomma cominciare a pensare in termini di democrazia fredda, di democrazia per default, fisiologicamente data per scontata e proprio per questo non minacciata.
Si tratta di un’analisi sostanzialmente errata. Non solo non vanno mitizzati gli altrui comportamenti elettorali, anch’essi da molti interpretati come segnali di intorpidimento della vita civile. Ma, soprattutto, va notato che il bassissimo dato di partecipazione italiano non è normale, non nasce da una lunga assuefazione a una democrazia funzionante e condivisa, e si manifesta anzi, sempre più vistosamente, come la conseguenza dell’intrecciarsi della crisi economica con la crisi dei partiti e del sistema politico. Non è, insomma, un silenzio-assenso ma un silenzio-dissenso, un tacito rifiuto del gioco elettorale, un chiamarsi fuori dalla fase decisiva e decisionale della democrazia (il voto) proprio perché la base materiale della democrazia (il lavoro) e anche la sua base ideale (l’umanesimo moderno e le sue progettualità) appaiono perdute o minacciate di irrimediabile erosione.
Perché in quelle basi della democrazia non si ha più fiducia, o quanto meno non si ha fiducia nei soggetti politici che dovrebbero garantirle: i partiti.
Non disincanto della democrazia, quindi, ma disagio della democrazia, insoddisfazione per la democrazia così com’è, per il volto – soltanto elettorale, non sostanziato di vita civile, di coesione sociale, di progresso morale – che presenta ai cittadini. Per metà degli elettori la cittadinanza democratica attiva – l’esercizio del diritto di voto – non è più interessante perché la politica è debole, perché non risolve i problemi, perché non li nomina o li nomina invano.
E non c’è nulla di freddo – anzi c’è una altissima temperatura potenziale – in questa astensione; non c’è assuefazione alla democrazia ma una minacciosa insofferenza verso di essa; non c’è fisiologia ma patologia in questo sciopero elettorale che crea di fatto una massa maggioritaria di italiani che si chiama fuori perché si sente fuori, perché è fuori, dal sistema politico, ma non certo dalla politica. È infatti, una massa di manovra a disposizione dell’imprenditore politico che saprà unificare con pochi simboli potenti e vincenti le molte e disparate ragioni di sofferenza e di insofferenza che oggi se ne stanno mute, acquattate nel fin troppo chiaro enigma dell’astensione.
Se la buona notizia del voto è che il Pd è la speranza della maggioranza di coloro che ancora sperano nella democrazia, la cattiva notizia del non-voto è che questi, nel tempo delle crisi, non sono più, o quasi, la maggioranza degli italiani. E che la democrazia stessa sta diventando non tanto fredda quanto piuttosto un’opzione minoritaria, un orizzonte che si va restringendo e forse perdendo.
Se la politica, i partiti, il Pd, non corrono ai ripari.
L’Unità 11.06.13