Dove si uccidono bambini, anche i bambini uccideranno. Per i Taliban, il fatto che sia stato un ragazzino di 11 anni a colpire Giuseppe La Rosa e rimandare in Italia la 53esima bara dall’Afghanistan, non è un orrore, è un vanto, da esibire come un trionfo.
Il nostro governo — in attesa di ricostruzioni sicure — sospetta che sia solo propaganda: ma non sarebbe certo la prima volta che viene armata la mano di un ragazzino dai signori della guerra. Come non ci sono più confini geografici allo strano, quanto atroce conflitto che insanguina il mondo da Boston al Pakistan, da Manhattan alla Somalia, così non ci sono più confini anagrafici. Undici anni di età, il tempo nel quale il crepuscolo dell’infanzia lascia il posto all’alba dell’adolescenza, possono sembrare pochi per chi vive nelle società relativamente ordinate e scandite dal ritmo della scolarità e dei censimenti. Ma per i figli della violenza quotidianamente subita e inflitta, quegli undici anni sono ormai la piena maturità dell’orrore.
Li chiamano “I figli di Dio” nei campi di addestramento in Waziristan, in Somalia, in Pakistan, ma non sono i figli di quel Dio pietoso che accoglieva gli innocenti, e gli esposti, gli orfani e i figli di nessuno lasciati infagottati nelle porticine girevoli dei conventi o sui gradini degli istituti. I loro padri sono i martiri degli attacchi terroristici, gli shaeed, i suicidi-assassini, i guerriglieri uccisi sotto i missili o in combattimento. Sono accolti e indottrinati nel culto del sacrificio dei loro padri fatto per la “Causa” e addestrati in polverosi nidi d’infanzia nel mezzo del nulla, in kindergarten infernali, all’uso delle armi da fuoco e degli esplosivi. Soprattutto, all’anelito per la “Santa Morte” jihadista.
Il Taliban undicenne che forse ha lanciato la bomba a mano dentro il Lince italiano è già un adulto, probabilmente un veterano e reduce di altri assalti, magari come ausiliario, servente, portatore d’acqua, finalmente promesso all’azione diretta. Nei campi della
galassia criminale si vedono bambini di cinque, sei anni, impratichirsi nell’uso di rivoltelle con il grilletto opportunamente allentato per rispondere alla debole pressione delle loro manine e il video clip vengono messi orgogliosamente in circolazione in Rete per mostrare come le nuovissime generazioni si preparino a sostituire i caduti nella guerra santa.
Un sito di ricerca americano, diligentemente compilato dal dottor Robert Johnston, elenca con cura da brividi tutti gli attentati mortali compiuti negli ultimi anni utilizzando bambini, pur escludendo gli almeno 20 mila baby killer organizzati come mini soldati nelle guerre locali in Africa.
Quattro gruppi terroristici, in Siria, Somalia, Pakistan e Afghanistan vantano questi asili della morte, dove si preparano i futuri attentatori. Ci sono prove crescenti, ha detto uno studioso inglese di terrorismo, Neil Doyle, che questi bambini siano costretti ad arruolarsi, a vivere un vita da forzati in questi mini gulag del terrorismo. Come ci sono bambine costrette alla prostituzione,
così ci sono maschietti forzati alla guerra. Nelle riprese diffuse da gruppi affiliati ad Al Qaeda, li si vede maneggiare armi sotto lo sguardo attento di istruttori appena un poco più grandicelli. Come l’assassino di Giuseppe La Rosa.
La storia, anche quella più retoricamente patriottica, propone molti esempi di bambini eroi, di martiri in calzoncini corti pronti a morire per la causa o a sollevare gli adulti contro l’oppressore del momento, dal Balilla genovese ai Tamburini Sardi e alle Piccole Vedette della tradizione italiana. Ma erano disposti a morire, non a uccidere. Il piccolo assassino con il suo “kit” da terrorista, come la scatola del Lego, del piccolo chimico o del piccolo medico che regaliamo ai figli, è il nuovo soldatino di piombo vivente, da utilizzare nel gioco della guerra vera. Minori sono stati reclutati e utilizzati da organizzazioni palestinesi contro gli israeliani nella Seconda Intifada, fra il 2000 e il 2005, secondo la Coalizione internazionale contro i soldati bambini e Amnesty International.
Bambini «facilmente reclutati con tecniche di manipolazione psicologica o per il desiderio di vendicare parenti e genitori uccisi ».
E qui, nella reciprocità atroce della morte che chiama morte, sta la radice della guerra dei bambini. Gli eserciti delle nazioni che si considerano civili non prendono deliberatamente di mira i bambini, le scuole, gli asili. Ma i missili e le bombe lanciate da aerei, elicotteri, droni ne uccidono in numeri che non saranno mai accertati. Al “figlio di Dio”, all’orfano che piange sul cadavere del padre, sul corpo della madre o della sorella, poco importa delle scuse e della spiegazioni dei generali che aprono inchieste e parlano di «errori» o di «effetti collaterali». Realtà e propaganda mostrano processioni di piccoli corpi dilaniati sulla polvere o in corsie di ospedali primitivi, sequenze di scuole demolite da bombe, non sempre lanciate con la firma.
Neppure tutte le ferite sono sanguinati o visibili. Settantacinque mila bambini di Manhattan dovettero essere seguiti e assistiti da psichiatri e psicologi per i traumi profondi generati dall’11 settembre. Soltanto negli ultimi dodici mesi, tredici scuole in varie province dell’Afghanistan sono state colpite da bombe, in quel Paese dove ormai 53 italiani sono caduti in una missione che ogni anno, ogni giorno che passa, rende sanguinosamente, quanto palesemente più insensata. Otto di loro erano istituti elementari dove si educavano femmine a leggere e scrivere, abominio e blasfemia per i Taliban puri e duri: sono stati assaliti con gas. I piccoli sono, nell’infamia di questa guerra non guerra, assassini teleguidati, come gli aerei robot, non da lontani computer, ma da adulti che programmano la loro mente. Chissà che disegnini fanno, nelle ore libere, i bambini di cinque anni educati negli asili del terrore?
La Repubblica 09.06.13