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“Noi, ragazze di piazza Taksim in giacca rossa per i nostri diritti”, di Marco Ansaldo

«La ragazza con la giacca rossa? Quella che resiste in piedi agli idranti della polizia turca? Tutti la cercano. Nessuno sa dov’è». A Piazza Taksim il tamtam è in atto da giorni. Non solo qui, ma sui social network, sui blog, Facebook, Twitter, tutta la galassia della comunicazione usata dai giovani che, seduti in cerchio, digitano di continuo con i polpastrelli sui loro telefonini. Ma la donna simbolo della rivolta contro il governo islamico sembra scomparsa.
Anche Sinem Babul, la fotoreporter
che l’ha immortalata nell’attimo in cui la giovane si opponeva al getto d’acqua delle forze dell’ordine, la cerca. «Non credo che sia stata portata via dalla polizia — dice nella redazione di T24, il giornale online autore in questi giorni non facili di un gran lavoro di informazione sul terreno — forse è tornata a casa e non vuole farsi vedere».
Eppure, a Istanbul, le sue immagini sono un po’ ovunque. La foto di lei con la sua giacca grondante d’acqua e le scarpe da tennis rosse è diventata un’icona sui manifesti, sugli sticker, pure come un fumetto. Ci sono poster, addirittura, in cui la sua figura appare ingigantita rispetto a quella degli agenti dotati di caschi e scudi. Sotto, la scritta: “Più spari, più diventa grande”.
«Questa foto incarna l’essenza della protesta — commenta Esra, che studia matematica all’università — e cioè la violenza della polizia contro manifestanti pacifici, persone che cercano di proteggere sé stesse e i valori in cui credono ».
Del resto, basta guardarsi intorno, qui, e vedere quante sono le ragazze di Piazza Taksim, giovani turche belle e determinate nella difesa dei propri diritti. Indossano magliette delle marche di moda, come le loro coetanee a Parigi o Berlino. Ma dal loro colletto penzola con disinvoltura la garza con la mascherina antigas, mentre sulle spalle portano la bandiera rossa con la mezzaluna e la stella.
C’è Hasine che, come una moderna Erinni, non nega di aver lanciato, «per esasperazione» ammette, qualche pietra contro un blindato. E Secil, con una piccola fascia bianca attorno al capo, che guata con occhi feroci una foto
del premier Tayyip Erdogan: «Lui dice che noi siamo dei “vandali”. Non ha proprio capito, anzi forse uscirà da questa crisi senza aver imparato nulla. Il governo non può intromettersi nella vita privata delle persone, impedendogli, come sta cercando di fare, di bere, fumare, persino di baciarsi in pubblico. Ma stiamo scherzando?».
Tutte rigorosamente non velate («ci mancherebbe pure — ironizzano, tornando subito serie — quello è un simbolo dell’Islam politico, noi siamo musulmane laiche »), ai polsi braccialetti e perline, con le loro sciarpe leggere al collo vengono da Nisantasi, Sisli, Levent, i quartieri della Istanbul bene. Lavorano come impiegate, nelle scuole, o sono iscritte all’università. Adorano i film di Nuri Bilge Ceylan, il pluripremiato regista turco, ascoltano il rock-pop dei Mor ve Otesi (i Viola e oltre), e si abbeverano ai libri di Orhan Pamuk, il premio Nobel nazionale. Rappresentano l’elite della Turchia repubblicana e moderna, come le loro colleghe scese in strada in queste giornate drammatiche a Smirne, Ankara e persino nella Cipro turca divisa a metà. Appartengono, come la ragazza con la giacca rossa, ai ranghi della borghesia più articolata, che teme di soccombere sotto l’ombra autoritaria e poco tollerante dell’invadente premier.
Erdogan è il bersaglio dei loro strali. «Ha fatto una legge per impedire l’aborto — dice Hasine, che studia chimica — Invita le famiglie a fare almeno tre figli. Si fa forte di essere stato votato dal 50 per cento degli elettori. Bene, io appartengo a quell’altro 50 per cento, la metà della popolazione per la quale lui non mostra né rispetto né considerazione, quelli che vuole stroncare. Ma io voglio avere un futuro qui, una carriera, libertà totale. Tutti concetti adesso minacciati».
Questa sera, in piazza, sotto al monumento ad Ataturk, il fondatore laico, si prepara un’altra notte di resistenza. Può fare freddo, e la polizia turca ha la mano piuttosto dura. Le ragazze si sono attrezzate. Indossano cappelli pesanti, sono vestite di nero, hanno comode scarpe da corsa. Esra torna col pensiero al poster con la ragazza che diventa un gigante. Ha un’idea: «E se domani — dice — venissimo tutte a Piazza Taksim con la giacca rossa?». E comincia subito a inviare messaggi alle amiche, ovunque, digitando con i polpastrelli sul suo cellulare.

La Repubblica 05.06.13