Quanti morti, quanti ne conteremo ancora. Una strage senza limiti di tempo. L’Italia è piena d’amianto, di eternit, impasto di cemento e amianto, solido, economico, inventato un secolo fa. Lo si vendeva come indistruttibile. Eterno appunto, con la conseguenza che ce lo ritroviamo tra di noi chissà per quanto. Ecco una impresa utile per una economia un po’ meno di mercato e un po’ più sociale: smaltire l’amianto, toglierlo di mezzo da tetti, capannoni, case, camini. Per ora ci sono le sentenze. Quella d’appello inasprisce quella di primo grado: 18 anni, due anni in più, di reclusione per Stephan Schmidheiny, imprenditore svizzero (è morto un mese fa l’altro imputato, Louis De Cartier De Marchienne, belga) e conferma le responsabilità di chi tonnellate d’amianto ha prodotto in Italia e venduto. A conclusione del primo processo si parlò di verdetto esemplare, che apriva una stagione nuova. Ora ci si può ripetere. «Un inno alla vita», dice il pubblico ministero torinese, Raffaele Guariniello, con un filo di enfasi. Di sicuro tanti morti sul lavoro e tanti morti in conseguenza di quel lavoro hanno un colpevole e non si potrà più dire «il caso”, «sfortuna”, «ignoranza,’ (la tesi difensiva) e quindi impossibilità di prevedere che cosa avrebbero potuto provocare quelle polveri dentro le quali gli operai erano costretti a faticare, a respirare, persino a riposare, polveri che giungevano dentro casa. A Casale Monferrato, a Cavagnolo, a Bagnoli, a Rubiera. La sentenza afferma che l’Eternit continuò a spargere veleni fino a metà degli anni ottanta, che il guasto provocato era noto, che si fece di tutto per tenerne all’oscuro chi dentro quella fabbrica e in quei paesi viveva. La condanna è per disastro doloso permanente e omissione dolosa di misure antinfortunistiche. Una volta tanto il linguaggio dei giudici è chiaro. Come stabilì il primo processo, due anni fa: chi comandava sapeva che l’amianto costituiva un pericolo mortale, provocava il cancro ai polmoni, generava l’asbestosi, ma decise di non fermare la macchina. Per non perdere soldi, chi comandava all’Eternit aveva «omesso di adottare i provvedimenti tecnici, organizzativi, procedurali, igienici necessari per contenere l’esposizione all’amianto… di curare la fornitura e l’effettivo impiego di apparecchi di protezione, di sottoporre i lavoratori ad adeguato controllo sanitario, di informarsi e informare i lavoratori circa i rischi specifici derivanti dall’amianto e le misure per ovviare a tali rischi». Con la condanna arrivano anche i risarcimenti milionari. Niente può risarcire 1700 morti, più quelli che verranno, più quelli di un passato lontano (l’Eternit, a Casale, si sviluppa dal 1907). Almeno non si è ripetuto però quanto è accaduto per altri morti e con altre sentenze: quelli del Vajont, ad esempio, o quelli del Petrolchimico di Marghera. Tante assoluzioni e nessuna giustizia per quanti finirono travolti dal fango o intossicati dalle polveri del cloruro di vinile monomero. La difesa degli imputati fu sempre la stessa: non sapevamo. Più probabile che fosse vero il contrario, come avrebbero dimostrato atti processuali e tante ricostruzioni. In questo caso, una pratica antica, una pratica assolutoria in tacito accordo dei poteri, s’è cancellata. Non sarà definitivamente, ma è un esempio. Come lo è stato quello per i metalmeccanici finiti nel rogo della Thyssen: omicidio volontario con dolo eventuale, perché nulla era avvenuto per caso, si sapeva, si poteva prevedere, per interesse si negarono quelle misure di sicurezza che avrebbero potuto evitare la strage (lo stesso pm, Raffaele Guariniello). Qualche mese fa una nave container urtò un molo del porto di Genova, abbattendo una torre di controllo. Altre vittime. Coincidenza: il giorno dopo, alla luce del sole, altri morti, otto morti sul lavoro in giro per l’Italia, italiani e stranieri: un operaio sulla scala folgorato mentre controllava le linee dell’alta tensione, un elettricista che precipita da una impalcatura, un agricoltore travolto dal trattore, un manutentore schiacciato da una pressa. Eccetera eccetera… Quanti sono C’è un numero che ricorreva un tempo nelle statistiche: mille morti sul lavoro ogni anno. I conteggi non sono sempre corretti. I numeri di quest’anno li ricordano i sindacati: centosettantatre, il 32 per cento in edilizia, il 31 in agricoltura. Così in Italia. Per lo più sono «caduti>, senza un volto, senza una storia. Dimenticati in solitudine, come sono stati dimenticati i seicento e forse più operai sottopagati, schiavizzati, schiacciati dalla loro fabbrica che crolla in India. Sono lontani. Una sentenza di tribunale può restituire la vita? No, di certo. Però può indurre qualcuno ad avvertire e temere il peso di una responsabilità, può stimolare la politica a scrivere le leggi giuste (che probabilmente già esistono), può muovere l’opinione pubblica. Potrebbe anche aiutarci a riflettere se sia il nostro tra profitto, mercato e gaio consumismo il modo giusto per crescere.
L’Unità 04.06.12