Che l’attuale legge elettorale debba essere superata non vi è dubbio. Il premio di maggioranza (nazionale alla Camera, diversi premi regionali al Senato), assegnato alla coalizione o al partito che raggiunge il miglior risultato senza nemmeno prevedere una soglia minima, si è rivelato incapace in questi anni di garantire stabilità di governo, ha falsato il meccanismo della rappresentanza democratica e potrebbe produrre paradossali risultati di “sovrarappresentanza” pure in presenza di risultati assai modesti.
Il meccanismo delle «liste bloccate» costituisce ormai un fattore insostenibile di distanza tra elettori e classi dirigenti, tra istituzioni e popolo, tra cittadini e politica. Il fatto di non essere riusciti a cambiare la legge nei mesi scorsi pesa su tutte le forze politiche, anche se le responsabilità sono diverse. Il discorso del Presidente della Repubblica è stato esplicito, la Corte Costituzionale si pronuncerà nei prossimi mesi, la nascita del nuovo governo è stata legata all’obiettivo di mettere mano alle riforme istituzionali e alla nuova legge elettorale. A questo compito deve lavorare il nuovo Parlamento.
Tra i punti più delicati da affrontare vi è il possibile ritorno al voto di preferenza. Un istituto che, sebbene sia stato protagonista in passato di pagine non felici del nostro sistema politico, viene oggi preferito da molti e richiesto nella convinzione che sia lo strumento più efficace per restituire all’elettore la facoltà di scelta dei singoli candidati. Certo, è una modalità che vige per i Comuni e le Regioni, ma nessuna delle principali democrazie europee contempla la preferenza nei propri sistemi elettorali. Francia, Germania, Regno Unito, Spagna sono Paesi con sistemi elettorali, storie e culture differenti nei quali, nonostante la politica e i partiti della sinistra abbiano attraversato crisi di legittimità anche gravi (basti pensare al fatto che in Francia nel 2002 i socialisti si adoperarono per far vincere Chirac al secondo turno contro Le Pen), la solidità del sistema consente alternanza, stabilità e legittimazione delle classi dirigenti.
Le leggi elettorali vanno valutate anche in relazione all’obiettivo di rafforzare i meccanismi democratici della partecipazione e della decisione politica, e dunque anche in relazione ai modelli di partito. Per quanto ci riguarda, vorremmo contribuire a costruire un partito che torni a sentirsi una comunità legata da un progetto, valori e obiettivi comuni, che assicuri sedi democratiche e trasparenti di decisione e selezione della classi dirigenti, governato da regole che assicurino diritti e doveri uguali per tutti e che presiedano all’organizzazione della vita interna promuovendo competenze, esperienze e capacità di direzione politica, a partire da quelle delle donne. Partiti vivi e aperti, risorse e non ostacoli per la vita democratica del Paese. Per questo dovremmo assicurare la possibilità di scelta dei candidati, obbligando le forze politiche a chiedere il consenso sulla base della forza e della capacità dei singoli ma anche e soprattutto sulla base di un progetto ed un profilo comune.
Guai a demonizzare la necessità di raccogliere il consenso anche sulle persone e nei singoli territori ma guai pure a non scegliere, per centrare questo obiettivo il metodo e lo strumento più giusto. E infatti, le criticità cui ci riporterebbe il ritorno alle preferenze sono così tante che non possono essere sottovalutate. In primo luogo, con la preferenza i partiti rischierebbero di abdicare a una responsabilità che dovrebbe essere uno dei loro compiti più importanti: la promozione di una classe dirigente.
Con il ritorno alle preferenze, inoltre, non meno fondato è il rischio dell’aggravarsi di una questione etica. La spinta a costruire sistemi di potere territoriale in grado di generare e produrre consenso personale, infatti, richiede tanto, troppo danaro per le campagne elettorali e determinando una maggiore «permeabilità” del sistema da parte di lobby e poteri economici locali presta sicuramente più il fianco al rischio di risvegliare appetiti da parte dei poteri criminali. Senza contare che, al di là delle buone intenzioni e delle sincere speranze, le competizioni elettorali che prevedono questo strumento sono quelle storicamente più impermeabili e resistenti al ricambio delle classi dirigenti perché premiando spesso i candidati in possesso di maggiori strumenti (finanziari e relazionali) e con un consenso già consolidato finiscono per penalizzare l’entrata di nuovi soggetti, in primis giovani e donne.
Per tutte queste ragioni appare stucchevole la convinzione di coloro secondo cui il ritorno a un sistema di questo tipo aiuterebbe il difficile passaggio dalla seconda alla terza repubblica dal momento che per troppi aspetti rischia di ricordarci la prima e per le stesse ragioni appare incomprensibile la resistenza a tutt’oggi espressa, in modo particolare dalle forze del centrodestra, verso il sistema dei collegi. Sarebbe quest’ultima la scelta migliore per traghettare l’Italia in avanti. Il sistema dei collegi, certamente corredato da norme che prevedano un’adeguata garanzia per quanto riguarda la presenza femminile, richiede alle forze politiche la selezione e la candidatura per ogni singolo collegio di donne e uomini capaci, meritevoli ma anche e per forza apprezzate e riconosciute in quel territorio.
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