È finita una lunga stagione politica, durata quasi settant’anni. Segnata da sentimenti di appartenenza e ostilità partigiana. E da grande stabilità elettorale. Quell’epoca pare alla fine, come l’Italia della continuità. Dal 1948 al 2008 ha presentato una mappa del voto coerente e con poche novità. Perché gli italiani, in fondo, votavano allo stesso modo, da un’elezione all’altra. NEL corso della prima Repubblica, divisi fra comunisti e anticomunisti (i democristiani e i loro alleati). Nella Seconda Repubblica, opposti fra Sinistra e Berlusconiani. O, ancora, fra anticomunisti e antiberlusconiani. L’anticomunismo, anche senza il comunismo, è rimasto, infatti, il principale elemento di continuità della nostra storia politica ed elettorale. Tanto che la geografia del voto nella Seconda Repubblica si è riprodotta attorno all’Italia Rossa, riassunta nelle regioni del Centro. Da sempre zone di forza della Sinistra. Il PCI, prima. L’Ulivo e, soprattutto, il PD in seguito e di recente. Fattore di radicamento. Ma anche un limite. Quasi una “riserva indiana”. Anche negli ultimi vent’anni, nonostante il crollo della Prima Repubblica, il muro che separa gli elettori, in Italia, è rimasto. A dividere gli schieramenti. A frenare i passaggi di voto fra destra e sinistra. Pardon: fra anticomunisti e antiberlusconiani. Al massimo, da un’elezione e l’altra, intorno all’8% di elettori “migranti”, in movimento (dati Itanes). Che, in buona parte, si compensavano reciprocamente. Così l’esito delle elezioni si risolveva per pochi punti percentuali. In base alla capacità dei principali soggetti politici – e soprattutto del “partito personale” di Berlusconi – di risvegliare gli elettori tentati dall’astensione. Oppure, in base al gioco di alleanze e desistenze fra i partiti.
Quell’Italia non c’è più. Al suo posto, un Paese fluido. Dove le certezze politiche si sono sciolte, insieme a quelle di voto. In effetti, è successo tutto in fretta. Anche
se l’incubazione è stata lunga e laboriosa. Però la grande glaciazione elettorale, infine, si è consumata. Disciolta. Quasi all’improvviso. Alle elezioni politiche dello scorso febbraio. Quando circa il 40% degli elettori ha votato diversamente rispetto alle precedenti elezioni politiche del 2008. Oppure non ha votato. (Oss. Elettorale LaPolis-Università di Urbino). Così è finita la Fede – politica. E si è logorato il voto “fedele”. Dato, magari, senza passione. Per abitudine o per ostilità verso gli altri. Si tratta di un mutamento profondo, destinato
a durare. Perché la “prima volta” rende possibili altre (s)volte. Altre scelte, ogni volta diverse. Significa, cioè, aprirsi al cambiamento come regola.
Dietro a questa svolta, vi sono ragioni di lunga durata. Anzitutto, il declino delle appartenenze ideologiche e religiose. Poi, il distacco dai partiti. Il ri-sentimento verso il ceto politico. Un orientamento radicato e di lungo periodo, in Italia. Negli ultimi anni, è cresciuto in fretta. Vent’anni dopo la stagione di Tangentopoli, il malessere contro le istituzioni, i partiti e i politici si è
gonfiato nuovamente. Fino a esplodere. Ma non si è affidato ai giustizieri di sempre: i giudici, i magistrati. Verso i quali la fiducia dei cittadini non è più quella di un tempo. Il distacco politico si è, invece, tradotto in due differenti comportamenti. L’astensione e la protesta antipartitica. Intercettata, per primo e soprattutto, da Beppe Grillo e dal M5S. I nuovi giustizieri della Casta. I quali hanno rappresentato il principale veicolo del movimento elettorale. In Italia si è, così, diffuso un atteggiamento di crescente incertezza. In vista delle elezioni di febbraio, solo il 54% degli elettori afferma di non aver avuto dubbi “se” e “per chi” votare, all’inizio della campagna elettorale. E il 23% sostiene di aver deciso nell’ultima settimana. Anche se tra gli elettori del M5S sale al 30% (Indagine LaPolis, marzo 2013).
Le elezioni amministrative hanno amplificato questo nuovo orientamento. Perché il declino delle fedeltà tradizionali ha liberato gli elettori da vincoli di continuità, a ogni livello. Così, più ancora che in precedenti occasioni, sono divenuti determinanti motivi “specifici”. Legati all’offerta politica “locale”. Cioè: i candidati sindaci ma anche, e forse di più, i candidati consiglieri, presenti nelle liste. La capacità dei partiti di mobilitarsi sul territorio. E la ricerca delle – talora la caccia al-
le – preferenze. Queste ragioni spiegano la tenuta del centrosinistra, superiore a quella del centrodestra, che ha retto nel Mezzogiorno. Così si spiega anche il risultato – molto ridotto, rispetto alle attese – del M5S. Che ha presentato candidati sindaci meno noti. In più, rifiutando di allearsi con altre liste o di crearne di proprie, ha rinunciato ad attirare altri voti. Locali e personali. Una quota elevata di elettori che l’avevano votato alle politiche, così, ha scelto di astenersi, come mostrano le analisi di flusso dell’Istituto Cattaneo e del Cise- Luiss. Soprattutto a Roma. La città maggiormente “colpita” dall’astensione. Non a caso, perché nella capitale è forte l’identificazione con il governo e lo Stato centrale. I principali attori e fattori della delusione politica. Il non-voto, così, è divenuto un’opzione quasi “normale”. Come in altre democrazie, d’altronde. Per questo mi è difficile accettare i commenti che parlano di “vittoria del partito del non-voto”. Perché si tratta di una visione distorta, oltre che enfatica. Se il calo della partecipazione, rispetto alle amministrative precedenti, è stato di circa 16 punti percentuali, nel complesso dei 92 comuni maggiori al voto, si scende a 8,5 isolando le città che rinnovano la propria amministrazione
in anticipo rispetto alla scadenza naturale. Al 12,5 solo escludendo Roma, che, per ragioni di dimensione, “condiziona” il dato generale. Infine, se guardiamo la distribuzione del non-voto su base territoriale, emerge un quadro molto differenziato. In particolare, si osserva come l’astensione, nel Mezzogiorno, a sud di Roma, rispetto alle politiche, sia perfino diminuita (di circa quattro punti). Per effetto dei meccanismi “locali” e “personali” a cui facevo accenno.
Tutto ciò induce a confermare che l’era della “fede” politica è finita. Insieme alle fedeltà partitiche e antipartitiche. E alle “rendite” di posizione e di opposizione. In futuro è, dunque, probabile che circa metà degli elettori scelga, di volta in volta, se e per chi votare. Per cui nessuno può sentirsi al sicuro. Il che renderà più importanti le campagne elettorali, oltre alla capacità dei soggetti politici di offrire “buone ragioni” per votare per loro. E, prima ancora, per votare. Perché se votare non è più una fede, a non-votare non si fa peccato.
La Repubblica 03.06.13