La cosiddetta narrazione serve a guardare il passato e a raccontarlo con gli occhi di oggi ricavandone un’esperienza da utilizzare per agire sul presente e costruire il futuro. Narrare il passato è dunque un elemento indispensabile per dare un senso alla vita. Chi rinuncia a raccontare vive schiacciato sul presente e il senso, cioè il significato e la nobiltà della propria esistenza, fugge via.
Nei tempi oscuri che stiamo attraversando sono molti quelli che hanno rinunciato alla narrazione oppure che l’hanno trasformata in una favola senza alcun riscontro con la realtà. Le narrazioni sono ovviamente soggettive poiché ciascuno di noi guarda il passato con i propri occhi, ma il riscontro con i fatti avvenuti è doveroso; poi ci sarà il confronto sulle differenze. Le favole, invece, sono lo strumento preferito dei demagoghi e servono solo per accalappiare gli allocchi.
Le narrazioni più interessanti in queste giornate di notevole intensità politica ed economica le hanno fatte due persone, titolari delle due istituzioni più stimate dalla pubblica opinione: il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue “Considerazioni finali” che sono presentate ogni anno all’assemblea della Banca il 31 di maggio e il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in un’ampia intervista con il nostro giornale registrata nei giorni scorsi e che spetterà a me presentare domenica prossima a Firenze dove si svolgerà la nostra iniziativa denominata “la Repubblica delle Idee”.Una narrazione economica e sociale quella di Visco, sociale e politica quella di Napolitano. Scriverò dunque dell’una e dell’altra in questa mia nota domenicale perché compongono entrambe una narrazione coerentemente complementare da due distinti punti d’osservazione. Aggiungo che mi riconosco in entrambe poiché entrambe indicano la stessa via d’uscita dal famigerato tunnel nel quale ancora ci troviamo: senso di responsabilità e di realismo, innovazione, coraggio.
Ma c’è anche un terzo protagonista in sintonia con queste indicazioni ed è il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, cui spetta di trarre indicazioni politiche dalla duplice narrazione ed anche lui, allo scadere dei primi cento giorni del suo governo, darà i primi concreti segnali del percorso intrapreso nella sua conversazione fiorentina con Ezio Mauro.
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La narrazione di Visco comincia da 25 anni fa, cioè dal 1988. È una data approssimativa per difetto, poteva e forse avrebbe dovuto andare indietro d’una altra decina d’anni perché è dalla seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso che la partitocrazia diventa un sistema e il debito pubblico comincia la sua corsa.
Comunque i mali storici individuati da Visco sono quelli che affliggono da gran tempo il nostro Paese: l’industria rallenta il suo tasso di crescita, la base occupazionale è statica con tendenza a restringersi sempre di più, le dimensioni delle aziende sono nella loro stragrande maggioranza piccole e piccolissime,
difettano di capitali e rifiutano di aprirsi al capitale di rischio, perciò l’autofinanziamento è molto scarso e sono le banche a darsene carico. La forza lavoro ha quasi interamente disertato dall’agricoltura e si è riversata nei servizi che però sono quasi tutti di manovalanza o di professionalità strettamente corporative. Il capitalismo ha una dimensione di incroci azionari incestuosi che designano un sistema di tipo oligopolistico. Le innovazioni difettano, la finanza prende il posto della manifattura, langue la ricerca aumentano le rendite e le diseguaglianze, il tasso di evasione e il mercato sommerso galoppano, la classe operaia si frantuma in centinaia di contratti. Le mafie fanno il resto.
Questa è la diagnosi di Visco che affronta poi la crisi economica iniziata nel 2008 e impetuosamente arrivata in Europa l’anno successivo dove dura tuttora. Gli imprenditori hanno cercato di scaricarla sui licenziamenti e sul lavoro precario a bassissima remunerazione. Nella competitività siamo agli ultimi posti e siamo in coda anche nella produttività benché per fortuna proprio due giorni fa tutti i sindacati e la Confindustria hanno raggiunto un accordo di grande importanza sulla contrattualità di secondo livello e la rappresentanza sindacale nelle imprese. Poi Visco affronta il tema delle banche. Molti osservatori, pur riconoscendo l’esattezza del quadro da lui tracciato, hanno però rilevato che le sue critiche alle banche sono state molto più discrete e mescolate ad apprezzamenti non sempre meritati.
A me non sembra. Visco ha detto che il sistema bancario è complessivamente solido con la sola eccezione rilevante di Monte Paschi. Sostanzialmente è così. Ha aggiunto che la percentuale dei fondi investiti dalle banche in titoli pubblici italiani rappresenta poco più di un decimo di quelli erogati a imprese e famiglie ed è vero anche questo.
Ha infine rilevato che il credito erogato è diminuito perché le imprese hanno ridotto la domanda e perché una parte del credito richiesto non è «meritato» come prova il brusco aumento delle sofferenze equivalente a vere e proprie perdite che ormai hanno raggiunto il 7 per cento delle erogazioni alla clientela.
Fin qui la difesa del sistema, il quale però secondo il governatore ha trascurato di ammodernarsi, è andato in caccia di sportelli senza rimodernare la struttura aziendale con la conseguenza di una diminuzione dei profitti e di un calo nella raccolta e nella produttività.
La Bce non ha fatto mancare la liquidità ma gran parte di essa è rimasta giacente nelle casse di Francoforte. La strigliata alle banche c’è dunque stata, eccome, ma non separata dal fatto che la mancata crescita di dimensione delle piccole imprese ha scaricato un peso abnorme sul sistema bancario cui il governatore rimprovera anche di non aver spinto la moltitudine dei “padroncini” ad aprirsi al capitale di rischio.
Bisogna dunque che le banche cambino molte cose, così ha concluso il governatore, rivendicando anche l’accresciuta vigilanza europea e i maggiori poteri d’intervento chiesti dalla Banca d’Italia. Insomma la carota per ieri ma un nodoso bastone pronto ad essere usato domani se non aumenta l’ammodernamento bancario e l’erogazione alla clientela a minori tassi di interesse indotti dalla diminuzione dello spread.
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Mi auguro che tra una settimana saranno molti a seguire sul nostro sito, oltreché nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio, la conversazione con Giorgio Napolitano.
Il tema è affascinante: come mai un giovane non propenso alla militanza politica improvvisamente sceglie di iscriversi al Partito comunista; come mai diventa militante e dirigente locale e poi deputato ad appena 28 anni; come mai è tra i pochi a praticare il lavoro parlamentare nelle Commissioni economiche della Camera e contemporaneamente diventare anche dirigente nazionale del Partito. Qual è stato il suo rapporto con Togliatti e come ne giudica oggi la linea politica. Quale fu il suo rapporto con Amendola, con Ingrao, con Berlinguer. E poi la sua esperienza europea. La sua cultura formatasi sui testi di Gramsci, di Antonio Labriola, di Calamandrei, di Benedetto Croce e di Luigi Einaudi. La sua amicizia per Antonio Giolitti. E il formarsi fin da molti anni fa della sua vocazione istituzionale che lo portò, già nel lontano 1995, a dire in un discorso di spessore culturale al Circolo Vieusseux di Firenze: «Perché non possiamo non dirci liberali». Insomma la storia di una persona che occupa ora da oltre sette anni il vertice dello Stato, da dirigente del Pci a uomo delle istituzioni al di sopra delle parti.
Ascolterete il suo racconto e perciò ne anticipo qualche tema ma non il suo svolgimento. Il finale invece è di strettissima attualità perché riguarda l’attuale «strana maggioranza», le ragioni che lo hanno indotto ad accettare il nuovo mandato presidenziale e la nomina da lui decisa del governo di larghe intese che dovrà durare fino a quando non avrà tratto fuori il Paese e collaborato a trarre fuori l’Europa dalle dolorose difficoltà in cui versiamo. Ma nel frattempo il Parlamento dovrà compiere alcune indispensabili riforme in parte economiche ma in parte istituzionali e costituzionali, a cominciare da quella elettorale che cancelli la legge vigente.
Questi sono gli obiettivi da lui indicati al primo posto dei quali c’è l’occupazione in genere e quella giovanile in particolare. Responsabilità e coraggio, esorta il Presidente, che questa volta è pronto ad intervenire nell’ambito dei suoi poteri poiché è intollerabile, per quanto riguarda soprattutto la legge elettorale, che si ripeta il già visto mesi fa quando – avendo tutte le forze politiche giurato che avrebbero abolito il Porcellum – pestarono per mesi l’acqua nel mortaio senza nulla concludere. Stavolta non sarà così, dice il Presidente e quasi lo grida verso la fine della nostra conversazione. Mentre lui parlava pensavo che il suo è uno dei rari casi in cui i vecchi sono molto più innovativi dei giovani: li sorregge l’esperienza e lo spirito di servizio al bene comune. Lo sentirete. Aggiungo ancora che Napolitano è contrario al presidenzialismo in un Paese come il nostro. E spiega il perché.
Ieri in un’intervista con l’Unità anche Stefano Rodotà ha manifestato analoga opinione: è contrarissimo al presidenzialismo e al semi-presidenzialismo. Lo sapevo da tempo perché conosco le sue opinioni, ma apprezzo che l’abbia ripetuto pubblicamente ora che molti e di varia matrice politica se ne dicono favorevoli. Rodotà come Napolitano e, modestamente, anch’io. Faccio a meno di dire il perché visto che Rodotà lo ha già ampiamente spiegato e il Capo dello Stato lo spiegherà a Firenze tra una settimana, alla festa del nostro giornale.
La repubblica 02.06.13