C’era un malcelato orgoglio nell’elenco dei ringraziamenti che Ignazio Visco
ha rivolto a coloro che, dalla Banca d’Italia, sono andati a ricoprire posti
importanti nel governo, nell’amministrazione pubblica e, perfino, alla Rai. E c’
era molta curiosità tra la platea che ascoltava le sue «considerazioni finali»
per capire come il governatore avrebbe marcato la distanza con il suo ex
direttore generale, Fabrizio Saccomanni.
Quel Fabrizio Saccomanni da solo un mese a capo del ministero dell’Economia,
il tradizionale interlocutore degli ammonimenti che, ogni anno, vengono
lanciati da via Nazionale al governo. Il potenziale imbarazzo di Visco è stato
schivato con abilità, ma senza reticenze, pur nell’ancor più rigoroso rispetto
della funzione del governatore e dei limiti del ruolo. Così il messaggio alla
politica, anche questa volta, è stato chiaro, ma si è esteso, con maggior forza
del passato, a tutta la società italiana, in particolar modo alle imprese e all’
alta dirigenza burocratica del nostro Paese. Nella consapevolezza di una vasta
corresponsabilità per il drammatico ritardo competitivo che l’Italia ha
accumulato negli ultimi 25 anni.
La diagnosi dei nostri mali è, ormai, da tutti condivisa e le terapie per la
cura, anche per i ridotti margini che l’Europa concede ai medici italiani,
sono, quasi da tutti, pure condivise. Ma il guaio è nella loro applicazione,
perché i politici, come ha detto eufemisticamente Visco, «stentano» a mediare
tra interesse generale e interessi particolari, la burocrazia frena il processo
di ammodernamento e le riforme «sono sempre chieste a chi è altro da noi». È
questo il nodo che strozza l’economia italiana e che ha indotto il governatore
a un giudizio abbastanza desolato e desolante sul nostro Paese «incapace di
rispondere agli straordinari cambiamenti geopolitici, tecnologici e
demografici» avvenuti da oltre due decenni.
Ecco perché la politica deve fare la propria parte e, a questo proposito,
Visco si è schierato decisamente fra coloro che difendono il rigore nelle
politiche di bilancio, in sottintesa, ma trasparente polemica con chi è stato
colto da improvvise conversioni sull’opportunità di un loro allentamento. Anzi,
ha ricordato al governo che, almeno per quest’anno, non ci sono né tesori, né
tesoretti da spendere e che le tasse, nel medio periodo, andranno sì abbassate,
ma cominciando da quelle che gravano sul lavoro e sulle imprese. E i silenzi
del governatore sulla invocata, da Berlusconi, abolizione dell’Imu e sul
sollecitato, dalla sinistra, rinvio dell’aumento dell’Iva sono apparsi davvero
eloquenti.
Non basta, però, a salvare l’Italia da un inesorabile declino nella gerarchia
delle nazioni nel mondo l’opera dei politici e neanche il forte contrasto alle
inerzie e alle inefficienze dell’amministrazione pubblica, pure nella speranza
che il nuovo ragioniere dello Stato, proveniente proprio dalla Banca d’Italia,
Daniele Franco, riesca là dove hanno fallito i suoi predecessori. La sferzata
più bruciante, e forse la più inattesa, è stata riservata da Visco alle
imprese. Non tutte, per la verità. Perché il governatore ha riconosciuto che
alcune, fra le più grandi, hanno investito con risorse proprie, hanno accettato
la sfida dell’innovazione spostandosi sui mercati più dinamici, hanno cambiato
i modelli organizzativi. Altre, invece, continuano a chiedere soldi allo Stato,
a non diversificare, rispetto ai finanziamenti bancari, le fonti delle loro
risorse, a non modernizzare i processi produttivi.
È vero che profondi cambiamenti nei rapporti di lavoro sono necessari, ha
sostenuto Visco, così come nel mondo dell’istruzione, nella giustizia civile,
nel quadro troppo ridondante di norme e di adempimenti amministrativi. Ma
quella «distruzione creativa» di schumpeteriana memoria farà il suo
inarrestabile corso nei prossimi anni in Italia e la previsione del governatore
non è sembrata nascondere la drammaticità delle conseguenze che provocherà
anche sulla coesione sociale nel nostro Paese.
La relazione del governatore è apparsa spietata nella diagnosi, completa nella
individuazione delle responsabilità, ma forse priva, all’apparenza, di proposte
innovative, soprattutto sul difficile problema del rapporto tra banche e
imprese medio-piccole. È possibile che, nei prossimi mesi, la Banca d’Italia
suggerisca, su questo tema, una serie di misure che possano aiutare quel
tessuto aziendale intermedio che costituisce la forza dell’economia produttiva
italiana. Una struttura gravemente indebolita nel numero di grande industrie
presenti in settori fondamentali per i mercati internazionali e che conserva,
invece, nicchie di eccellenza che, però, avrebbero bisogno di una crescita
dimensionale ormai non più rinviabile. Ma siamo davvero sicuri che sia più
urgente esercitare la fantasia, immaginando nuove norme, nuove leggi, nuove
proposte e, invece, non sia meglio, e più concretamente efficace, far
funzionare quelle che ci sono già o che sono state già decise e che le mille
corporazioni italiane del privilegio stanno bloccando?
La Stampa 01.06.13