Oggi, consiglio federale? Ma di che? Perché, piaccia o no, pare proprio che la Lega Nord sia finita, non ci sia più e non perché l’ha deciso il destino: hanno fatto tutto loro, Umberto Bossi, Roberto Maroni, Matteo Salvini e gli altri. Restano i nomi, la nomenclatura, alle loro spalle quasi nessuno; le recentissime amministrative hanno fatto un gran deserto degli orti leghisti della abortita Padania. Quindi, se si capisce bene e senza malizia, l’adunata di oggi si annuncia come l’apertura di un inevitabile processo di liquidazione; molto difficile, però, perché a dispetto delle cifre, quella nomenclatura governa.
Il primo problema sta qui: rappresentano quasi nessuno ma governano tre grandi regioni del Nord, il Piemonte con Roberto Cota, la Lombardia con Roberto Maroni e il Veneto con Luca Zaia. Non sono mai stati tanto piccoli e con tanto potere tra le mani, anzi non ricordiamo una forza politica di queste modestissime dimensioni premiata simultaneamente da tre governatori in grado di orientare gli interessi di una ventina di milioni di esseri umani.
Quel pur modesto quattro per cento raggranellato alle politiche è stato ridimensionato ancora dalle amministrative e benché in un buon numero di Comuni si attenda il ballottaggio – Treviso e Brescia comprese – per stringere i conti, non è azzardato ritenere concluso il ciclo delle alabarde e delle ampolline.
Del resto, anche in questo caso non si azzarda nulla: hanno provveduto loro, i grandi nomi della Lega Nord, ad annunciare la triste novella. Adesso, da un paio di giorni, si insultano volentieri in faccia l’uno con l’altro, mentre Belsito, il loro fidatissimo ragioniere sta parlando davanti ai magistrati chiamandoli, più o meno, tutti in causa per quanto riguarda le responsabilità nella allegra e avventurosa gestione del patrimonio di “famiglia”. Stanno al margine, ma contano ancora, quindi, e intanto si randellano, così stanno le cose.
L’ACCUSA DEL SENATUR
Il primo ad alzare la voce è stato Bossi, e non si aspettava che lui, il mangiatore di rospi: ha invitato, a suo modo gentilmente, il glaciale Maroni a «fare un passo indietro». Poi, che alle spalle della sua sfortuna politica ci sia un’anima interna al Carroccio, Bossi non l’ha mai negato con il cuore. Ora è più deciso, ma trattiene qualche garbo: «Io sono stato tradito dalla Lega – ammette – ma da Maroni meno che dalla Lega». Vuol dire che, più o meno, si riserva di togliere le attenuanti generiche al suo ex aquilotto in un secondo tempo. Dietro di lui, è un macello. Flavio Tosi, ad esempio, sindaco di Verona ora traballante, maroniano da sempre e vero proconsole anche nel Veneto di Zaia, dà per morto il partito. Sostiene che è venuto il tempo delle liste civiche, come quella che gli ha dato il potere nella città veneta, a dispet- to di Bossi e delle sue direttive affinché non rinunciasse mai al simbolo.
Questo fa ulteriormente avvelenare i leghisti della prima ora che nel Veneto hanno la loro culla e che già hanno dichiarato guerra, prima del- le elezioni, a Maroni e anche a Tosi il quale, per tutta risposta, ha pensato di espellerne alcuni e di commissariare gli altri, negando loro un congresso di chiarimento. Incaprettati, i leghisti veneti sognano il vecchio Bossi e quel “bel” clima pieno di epos e tronfio di identità che non tornerà mai più.
Vanno compresi: il mondo sta crollando attorno a loro. Perché la storia delle liste civiche equivarrebbe a un inabissamento sistematico delle antiche simbologie e con queste anche dell’identità leghista. E al gioco delle liste stanno molti di quel parterre: Maroni è d’accordo, Roberto Castelli anche. Il governatore della Lombardia aggiunge che «la Lega non morirà mai», ma ormai non gli crede più nessuno, ha detto tutto e anche il contrario. Zaia, dal canto suo, mentre siede in testa alla regione Veneto, fa il pesce in barile: la base lo reclamava come antagonista degli imperialisti maroniani, ma lui cincischia, fa il ragionevole e si merita qualche delusione.
Così, sembra che la prossima vita dei leghisti sarà nelle liste civiche, ma questa non è la sola deriva in corso: Giancarlo Gentilini, ad esempio, è in corsa per la poltrona di sindaco di Treviso ma la sua candidatura è interamente imbevuta di calda nostalgia del fascismo, di leghismo neppure l’ombra. E anche Tosi, a quan- to pare, scherza con il fuoco della vecchia fiamma. Riciclaggio, è la parola d’ordine.
L’Unità 31.05.13