Fra i detrattori di Mahmoud Ahmadinejad proliferano le barzellette. In una c’è lui che si guarda nello specchio e dice: «Pidocchio maschio a destra, pidocchio femmina a sinistra». In Occidente, un tabloid americano quasi immancabilmente lo definisce il «Pazzo spietato», e nei giorni prima della sua rielezione veniva sbeffeggiato con gli appellativi di «scimmia» e «nanetto».
Ma il Mahmoud Ahmadinejad che è appena stato proclamato presidente per un secondo mandato quadriennale non è un personaggio dei cartoni animati. Il 65 per cento con cui ha vinto le elezioni, sia che rispecchi realmente la volontà popolare sia che si tratti del prodotto di una frode, ha dimostrato che Ahmadinejad è il portabandiera, abile e senza scrupoli, di un’élite clericale, militare e politica unita e aggressiva come mai prima d’ora dai tempi della rivoluzione del 1979.
In quanto presidente, Ahmadinejad è sottomesso alla vera autorità del Paese, la Guida suprema ayatollah Ali Khamenei, che ha l’ultima parola su tutte le questioni di Stato e di fede. Con queste elezioni, Khamenei e il suo protetto, secondo gli analisti, sembrano avere neutralizzato quelle forze riformiste che vedevano come una minaccia al loro potere.
«Questo cambierà per sempre il volto della Repubblica islamica», dice un iraniano bene informato, che come tutti gli altri intervistati ha chiesto, dato l’attuale clima di tensione, di restare anonimo. «Ahmadinejad rivendicherà un mandato assoluto: non ha alcun bisogno di scendere a compromessi».
Quando fu eletto presidente per la prima volta, nel 2005, Ahmadinejad mostrò la sua fedeltà alla Guida Suprema, inchinandosi delicatamente e baciandogli la mano. Sabato, la Guida Suprema ha dimostrato il suo entusiasmo per il presidente rieletto, salutando l’esito delle elezioni come «una benedizione divina», ancora prima che fosse trascorso il periodo di tre giorni previsto dalla legge per la contestazione del voto.
Domenica, Ahmadinejad ha ostentato il suo successo organizzando un comizio di festeggiamento nel cuore di un quartiere della capitale fedele all’opposizione, e tenendo una conferenza stampa in cui si è scagliato contro l’Occidente. Commentando le aperture dell’Amministrazione Obama, Ahmadinejad ha anche lasciato intendere che la sua disponibilità a riconciliarsi con governi stranieri dipenderà dalla loro disponibilità a ingoiare la sua contestata elezione.
Alla domande se nel suo secondo mandato avrebbe adottato una linea più moderata, ha risposto con un sorrisetto: «Non è così. Sarò ancora più determinato». Può permetterselo. Con il sostegno della Guida suprema e dell’establishment militare, ha messo nell’angolo tutte le principali figure che rappresentavano una sfida alla visione dell’Iran come Stato islamico in rivoluzione permanente.
Sotto molti aspetti, la sua vittoria è forse lo scontro finale nella battaglia per il potere e l’influenza che da decenni vede contrapposti Khamenei e Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, l’ex presidente che pur rimanendo fedele alla forma di governo islamica voleva un approccio più pragmatico all’economia, alle relazioni internazionali e ai temi sociali interni.
Rafsanjani si è schierato senza ambiguità, personalmente e attraverso membri della sua famiglia, a fianco del principale candidato riformista, Mir Hussein Moussavi, ex primo ministro, fautore di una maggiore libertà e di un atteggiamento più conciliatorio verso l’Occidente. Anche un altro ex presidente pragmatico, Mohammed Khatami, si è schierato con forza dalla parte di Moussavi. Questi tre esponenti, sommati a un ampio consenso da parte dell’opinione pubblica e alla delusione nei confronti di Ahmadinejad, rappresentavano una sfida all’autorità della Guida Suprema e dei suoi alleati, secondo i commentatori.
Le Guardie rivoluzionarie e una buona parte dei servizi segreti «si sentono gravemente minacciati dal movimento riformista», dice un commentatore che chiede l’anonimato. «Ritengono che i riformisti saranno aperti verso l’Occidente e accomodanti sulla questione del nucleare. Sono due modi di pensare che si scontrano. È una questione di potere».
Dopo l’annuncio dei risultati elettorali, sabato, Moussavi è stato l’eroe delle manifestazioni contro il governo. Moussavi aveva detto di essere «sotto stretta sorveglianza» nella sua abitazione. «Gli hanno fatto una multa», ha scherzato Ahmadinejad. «Non ha aspettato che scattasse il rosso».
Queste elezioni, concludono alcuni esponenti dell’opposizione, rischiano di ricacciare le classi sociali filoriformiste – in particolare i ceti più benestanti e istruiti – in uno stato di delusione passiva. «Non credo che i ceti medi saranno più disposti ad andare alle urne», si lamentava uno dei sostenitori di Moussavi.
(copyright The New York Times, la Repubblica; traduzione di Fabio Galimberti)
la Repubblica del 16 giugno 2009