A seguito delle ultime, clamorose iniziative giudiziarie, l’attenzione dell’opinione pubblica e del governo si è concentrata, in queste ore, sulle complicatissime vicende che hanno come epicentro lo stabilimento Ilva di Taranto e, intorno ad esso, il grande gruppo siderurgico di cui è proprietaria la famiglia Riva. Tuttavia non è possibile comprendere appieno implicazioni e conseguenze della vicenda Ilva se, andando oltre la cronaca politico-giudiziaria, non la si inserisce in uno specifico contesto industriale: quello del settore siderurgico nelle sue dinamiche europee e globali. L’11 giugno sarà reso noto, a Bruxelles, il Piano Ue per l’acciaio elaborato, in questi mesi, dalla Commissione e dal tavolo di alto livello presieduto da Antonio Tajani. Piano che deve confrontarsi con un fenomeno presente anche in altri settori industriali: un eccesso di capacità produttiva installata. Ebbene, se chiudesse l’Ilva di Taranto circa la metà di questa sovracapacità produttiva che pesa sugli impianti attivi nei Paesi dell’Unione sarebbe «tagliata»; almeno metà degli obiettivi di riduzione del Piano verrebbero raggiunti prima ancora della sua presentazione e tutti a carico del nostro Paese. Un Paese che rischia, nel settore siderurgico, di dipendere sempre più dalle importazioni da economie extra europee: basti pensare che nel primo trimestre del 2013, pur in piena recessione e con l’impianto di Taranto in attività, le importazioni di acciai piani è raddoppiata. In altre parole, mentre a Taranto e in altre zone del nostro Paese migliaia di lavoratori temono di ritrovarsi disoccupati, a Bruxelles, in Renania, e forse anche nel Far East, c’è qualcuno che già prepara i festeggiamenti. Quello siderurgico è il settore in cui, più di altri, si può misurare concretamente la più profonda e rapida trasformazione geo-economica mai avvenuta: nel 2015 il peso relativo del Pil europeo sul Pil mondiale scenderà dal 18% del 2000 al 15%; quello dei Paesi extra Ue, nello stesso periodo, passerà dal 15 al 29%, in uno scenario in cui coesistono carenze di domanda e squilibri di offerta nei singoli settori e nei singoli Paesi. Si può affrontare un passaggio così arduo senza che gli Stati si pongano il problema della prospettiva e della gestione delle crisi di grandi imprese strategiche di interesse nazionale? Persino gli Stati Uniti, un tempo patria dei Chicago Boys, ed erroneamente considerati da qualcuno come destinati a una sorta di disarmo industriale, hanno ridefinito, con Obama, non solo il ruolo centrale dell’industria, ma anche quello dell’intervento pubblico in economia. Nel nostro Paese e, nel caso specifico di Taranto, la via di un nuovo intervento pubblico in economia è tracciata dalla legge 231 del 2012: occorre imboccarla con decisione. Nel sistema siderurgico italiano, in particolare nelle lavorazioni del ciclo integrale, non c’è una prospettiva per i singoli impianti. Non c’è futuro per Piombino, per Genova o per Trieste che possa prescindere da ciò che avviene a Taranto e dalle modalità con cui soltanto una regia pubblica può organizzare la gestione della sovracapacità strutturale. Se non dovesse prevalere la logica di una gestione concordata, di un processo di integrazione produttiva, di un riassetto condiviso del settore anche attraverso integrazioni societarie, non potrebbero nemmeno avviarsi le economie di scala derivanti da tassi di saturazione più elevati e da un utilizzo più efficiente ed ambientalmente sostenibile degli impianti. Certo, occorrono investimenti, privati e pubblici. Occorre che il Piano di Azione della Commissione per la Siderurgia Europea esca dalla vaghezza degli obiettivi annunciati. Occorre una politica di sostegno alla domanda di acciaio in settori decisivi come quelli dell’automotive e delle costruzioni, una politica commerciale basata sul principio di reciprocità, un sostegno straordinario alle politiche di ricerca, sviluppo e innovazione nei processi e nei prodotti. Ma su ognuna di queste politiche occorrono assi di intervento finanziati e finanziabili anche attraverso la creazione di Ppp (Public Private Partnership); occorre che la Bei, insieme ai soggetti nazionali per esempio, nel nostro Paese, il Fondo Strategico della Cassa Depositi e Prestiti si faccia garante di una fase di profonda e complessa ristrutturazione del settore. Senza caricare il tavolo nazionale sulla siderurgia che si insedia domani di aspettative eccessive, è comunque indispensabile che lo stesso assuma questo orizzonte e questa consapevolezza.
*Coordinatore nazionale siderurgia Fiom-Cgil
L’Unità 30.05.13