L’Italia ha bisogno delle riforme istituzionali
E non può più tornare al voto con il Porcellum. Si tratta ormai di bisogni vitali della nostra democrazia, che rischia di essere travolta dal discredito, dall’impotenza, dalla crisi sociale. La giornata parlamentare di ieri ha formalizzato l’impegno in una mozione. Enrico Letta lo ha reso solenne, ribadendo che la vita stessa del governo sarà legata al raggiungimento dell’obiettivo.
Alle sue spalle c’è la determinazione del Capo dello Stato, il quale ha già chiarito che non sopporterà l’ennesimo fallimento: se il processo riformatore verrà interrotto, Giorgio Napolitano si dimetterà rendendo drammatica la crisi di sistema e cercando di tagliare la strada ad eventuali profittatori della rottura.
Tuttavia i nodi sono ancora aggrovigliati. E il confronto di ieri – compresa la frattura nel gruppo Pd – dimostrano che la strada per uscire dalla seconda Repubblica è quanto mai accidentata. Bisognerebbe anzitutto sconfiggere la cultura populista – dalla «religione del maggioritario» al mito del premier eletto dal popolo, e dunque «unto del Signore» – che si è sovrapposta alla cultura costituzionale, svuotandone i principi e alternando gli equilibri della Carta. Non sarà una legge elettorale a risolvere da sola il problema della governabilità, né la crisi di sistema. Anzi, l’idea di affidare il cambiamento alla riforma elettorale è esattamente ciò che ci ha portato al disastro. Il Parlamento è stato umiliato, la frammentazione politica è cresciuta con il maggioritario di coalizione, la solidità dei governi è rimasta una chimera: e intanto i leader carismatici rimpiazzavano i partiti demo- cratici e il confine tra i poteri veniva ripetutamente violato, provocando conflitti destabilizzanti. E comunque, di fronte all’attuale tripolarismo, non ci sono sistemi elettorali al mondo capaci di garantire governi monocolori.
La soluzione della crisi italiana passa invece, anzitutto, da quel lavoro di manutenzione costituzionale che è stato rifiutato per due decenni. Non ci sono scorciatoie. Chi vuole la riforma elettorale per evitare le riforme istituzionali è banalmente un imbroglione. Ma chi vuole difendere la Costituzione e i suoi valori – e noi siamo tra questi – deve oggi essere capace di rimuovere i detriti depositati durante la seconda Repubblica e di riassestare l’insieme, rispondendo alle nuove domande di governo e di rappresentanza. Si ripropone qui il dilemma tra modello semi-presidenziale e modello parlamentare. Anche questo nodo sarà difficile da sciogliere, perché lo scontro attraversa tutti gli schieramenti. Si tratta
ovviamente di soluzioni entrambe legittime. Ma occorre scegliere. Non si può prendere un po’dell’una e un po’ dell’altra. Perché rischieremmo di rafforzare il populismo senza contrappesi e di scavare un fossato incolmabile con l’Europa.
Adottare il modello francese vuole dire riscrivere per intero la seconda parte della Costituzione: non sarebbe una revisione, ma una netta svolta istituzionale. In ogni caso non si confonda – neppure nella propaganda dozzinale – il semi-presidenzialismo francese con il cosiddetto «sindaco d’Italia». Chi continua a far confusione tra presidente eletto direttamente e premier eletto direttamente, magari lasciando intendere che si potrebbe persino fare l’una e l’altra cosa insieme, svela in realtà un deficit democratico e brucia il terreno di un possibile compromesso.
Saggezza vorrebbe che la Costituzione fosse davvero rispettata nei principi fondanti, comprese le funzioni di equilibrio e le linee divisorie tra i poteri: la via maestra delle riforme resta il consolidamento del sistema parlamentare, magari con un governo rafforzato, con istituti di stabilizzazione come la sfiducia costruttiva, con il superamento finalmente del bicameralismo paritario. Il presidente della Repubblica «garante», come abbiamo visto in momenti di crisi drammatica, è una risorsa istituzionale preziosissima (che il modello francese consumerebbe). I padri costituenti avevano concepito un motore di «riserva» del sistema, in caso di stallo politico del Parlamento. Quanta sapienza c’era in questa flessibilità: perché rinunciarvi trasformando le presidenziali nello scontro politico-elettorale principale del sistema?
La legge elettorale, da un punto di vista logico, viene dopo. Non ci sono dubbi. Siccome le riforme istituzionali sono necessarie a restituire agli italiani una democrazia decidente, la legge elettorale è il compimento di questo percorso e va costruita sia favorendo la formazione del governo attorno al partito che raccoglie più voti, sia restituendo ai cittadini una rappresentanza trasparente, legata alla scelta diretta degli elettori. Resta l’esigenza di superare al più presto il Porcellum. La garanzia è necessaria: con il Porcellum non si deve più votare. E non basta affidarsi al giudizio prossimo della Corte costituzionale, perché da quella sentenza potrebbe venire una delegittimazione del Parlamento assai più di una riforma conclusiva. Sarebbe un errore tenere in vita il Porcellum così com’è fino alla fine del percorso riformatore. Perché qualcuno potrebbe essere tentato di utilizzarlo. Si disinneschi almeno la mina, a partire dall’eliminazione dell’assurdo premio di maggioranza alla Camera (che neppure corrisponde a quello del Senato e che fa impallidire persino la fascista legge Acerbo).
L’Unità 30.05.13