Non sono bastati diciannove candidati a sindaco, 1.667 aspiranti consiglieri comunali, alcune altre migliaia in lizza per un seggio nei municipi ed una scheda elettorale lunga nientedimeno che un metro e venti centimetri. E i casi sono due: o nemmeno una tale, gigantesca kermesse messa in piedi per la scelta del nuovo sindaco di Roma è stata sufficiente a motivare i cittadini chiamati alle urne.
Oppure – e non ci sentiremmo di escluderlo – è stato proprio quest’ennesimo confuso, discutibile e dispendioso «carnevale elettorale» a contribuire a tener la gente lontana dai seggi.
Sia come sia, la Capitale tocca il suo record negativo di partecipazione al voto in una tornata amministrativa: solo il 37,7% all’ultima rilevazione di ieri (ore 22). Che vuol dire quasi venti punti percentuali in meno rispetto alle elezioni di cinque anni fa. E se Roma piange, non è che il resto d’Italia rida. L’affluenza alle urne è infatti precipitata praticamente ovunque attestandosi poco oltre un misero 44 per cento, il che vuol dire quasi sedici punti percentuali in meno rispetto al voto del 2008. Il dato è generalizzato. Riguarda il Nord (Brescia, Sondrio, Vicenza e Treviso registrano flessioni oltre il 20%), il Centro (Pisa -25%, Massa -16%) così come il Sud e le Isole, dove il calo è più contenuto solo perché si partiva da percentuali solitamente assai più basse. Si vedrà oggi, a operazioni di voto concluse, la reale dimensione di questa ennesima crescita dell’astensione. Ma ieri i segnali erano tutti negativi, e tra gli addetti ai lavori (politici e sondaggisti) serpeggiava un certo pessimismo.
La politica, dunque, si conferma malata. E la malattia non solo contagia tornate elettorali in genere meno colpite dal fenomeno (quelle amministrative) ma non è arginata nemmeno dalla presenza diffusa di liste del Movimento Cinque Stelle, che si immaginavano capaci di convogliare la disaffezione e la protesta dall’astensionismo al voto per il loro simbolo. Non è accaduto. E non basta. Per i candidati di Beppe Grillo, infatti, la vigilia non sembrava preannunciare risultati particolarmente brillanti: quasi a riprova del fatto che il movimento del comico genovese non solo non «guarisce» la cattiva politica, ma ne viene negativamente contagiato una volta che – agli occhi dei cittadini – ha con essa contatti troppo ravvicinati.
Sarebbe il caso che si cominciasse a tener conto sul serio (cioè mettendo in campo risposte) della crescita esponenziale del fenomeno-astensione. Occorre ci si convinca che non si è, ormai, di fronte ad una crisi passeggera – è quel che si immaginò al tempo del suo primo segnalarsi: diciamo dopo Tangentopoli – quanto ad una tendenza che pare sempre più inarrestabile. Convincersene vuol dire operare concretamente per rallentare – se non fermare – una deriva negativa e perfino pericolosa: operare varando leggi elettorali e riforme che riavvicinino il cittadino agli eletti e alle istituzioni, e accelerando sul piano del taglio ai costi della politica (mettendo da parte annunci, promesse e inutili populismi).
E non farebbe male lo stesso governo a raccogliere il segnale che arriva da questa sorta di diserzione di massa: il Paese non è fuori dalla crisi e non sta meglio di prima solo perché – dopo mesi di estenuanti scontri e trattative – un governo finalmente è in campo. Conta quel che fa, e come lo fa. Continuare a ripetere ad ogni tornante – che siano le sentenze per Berlusconi o il voto di sette milioni di italiani – che quel che accade «non avrà ripercussioni sul governo» non è un buon modo né per difenderlo né per aiutarne la sopravvivenza. L’esistenza in vita, il governo Letta-Alfano dovrà guadagnarlo sul campo. E la strada, onestamente, appare ancora tortuosa e in salita.
La stampa 27.05.13