Sono passati due anni, dal Lingotto. Il tempo, da quel giorno, non è trascorso invano. Il popolo delle primarie ha fatto nascere il Partito Democratico, in Italia c’è finalmente una grande forza che unisce le tradizioni e le nuove idee dei riformisti. Il sogno che alcuni di noi coltivavano da anni si è realizzato.
Ma se ritengo opportuno, in questo momento, tornare a dire quel che penso, è perché avverto che il nostro progetto, il progetto del Partito Democratico, è messo in discussione. E’ perché sento che attorno ad esso si muovono richiami antichi, perché le tensioni tornano e aumentano, perché si arriva dire che forse sarebbe meglio lasciar perdere il PD oppure ridurne le ambizioni trasformandolo in un frammento minoritario di uno schieramento senza un disegno riformista.
Vorrei essere chiaro: io sono e rimarrò fuori da un certo tipo di battaglia politica. Una cosa, però, sento di doverla sottolineare: di tutto abbiamo bisogno, tranne che di ritorni ad un passato che ha poco da dire. L’idea del Partito Democratico, come dimostra il voto europeo, è un progetto d’avanguardia, e l’idea di tornare indietro, in modo palese o camuffato, è un errore. Ci vuole più riformismo, più modernità, non il ritorno ad antiche e inesistenti certezze.
E’ davanti a noi che ci sono possibilità enormi, molto più grandi di quanto il quadro complessivo e la nostra attuale situazione potrebbero far pensare. Una lunga stagione, per la destra e i conservatori, si sta chiudendo. Anche, se non soprattutto, in Italia, dove molti segnali stanno dimostrando che il “berlusconismo” ha iniziato la sua parabola discendente.
Guai, però, a pensare che questo significhi automaticamente, come per inerzia, successo dei riformisti. Non c’è risultato che non passi attraverso il lavoro, le idee, la capacità di innovazione, la responsabilità.
E in questo senso il Partito Democratico deve fare ancora molto, davvero molto. Non tornando indietro, ma andando avanti. Evitando di ripetere gli errori compiuti e correggendo radicalmente un modo di essere e di fare che ci ha fatto solo male.
Penso ovviamente ai mesi successivi alle elezioni politiche di un anno fa. Una sconfitta è una sconfitta, e questo ha significato, per la sfida di governo lanciata dal PD, il risultato di quel voto. Ma da una sconfitta un partito, in particolare se è nato da pochi mesi e se raggiunge il 33% e oltre dei voti, può tranquillamente ripartire, per radicarsi e per affermare le proprie idee. Soprattutto se a sostenerle ci sono la passione di milioni di persone che hanno appena dimostrato, con una straordinaria campagna elettorale, di esserci, di voler partecipare, di crederci.
Invece questa passione è stata delusa, queste persone sono state disorientate. Il Partito Democratico è apparso subito impegnato più in laceranti e troppo spesso sotterranei scontri interni, più in un gioco perverso di posizionamenti individuali e di manovre di corrente, che in un convinto e unitario lavoro comune.
Io queste dinamiche, forse per una certa estraneità ad esse, non sono riuscito ad impedirle come avrei voluto. E per non essere riuscito a garantire la loro fine, ho scelto di dimettermi, assumendomi responsabilità anche non mie, come si fa quando si intende così la politica: come un servizio, con le ambizioni personali messe decisamente al secondo posto rispetto agli obiettivi comuni.
Anche per questo, nei mesi passati, ho evitato ogni polemica, ogni recriminazione, ogni atteggiamento di distanza, ogni intervista malevola. E ho voluto assicurare a Dario Franceschini, al suo sforzo intelligente, un sostegno leale e sincero.
Per me è stato e sarà sempre così. E’ solo per Partito Democratico, solo per il bene che voglio ad un progetto atteso e voluto da anni e che ora più che mai va rilanciato e rafforzato, che ho chiesto a personalità di diverse idee e sensibilità di ritrovarsi a Roma il 2 luglio, al Capranica.
Sarà quanto di più lontano, lo dico a scanso di equivoci e in nome di una assoluta ripugnanza per le vecchie e deleterie logiche correntizie, dell’ennesimo incontro di una componente che si vede per “pesare” nella vita interna di un partito. Chi si aspetta questo può anche non venire, quel giorno.
Ora è qualcosa che non riguarda più solamente noi. Riguarda il Paese. L’Italia ha bisogno di un partito riformista che sia il baricentro di un governo che la cambi radicalmente. Un partito capace di parlare un linguaggio nuovo per contenuti e ispirazione, capace di evocare, in un’Italia paralizzata dalla paura, il senso di una speranza collettiva.
A me interessa solo ed esclusivamente il progetto al quale ho lavorato per tutta la mia vita politica. A me interessa il PD, interessa che ne si rilancino il ruolo e le ambizioni, innanzitutto facendo rinascere, là dove si è affievolita, la passione di milioni e milioni di italiani che ci hanno creduto davvero, che credono al vero Partito Democratico.
Abbiamo bisogno di un partito in cui avanzi una nuova generazione di dirigenti, che senta con orgoglio l’identità che era racchiusa nelle centinaia di migliaia di bandiere del Circo Massimo. Un partito senza ex di nulla, senza correnti e personalismi, senza vecchie e paralizzanti logiche figlie di un tempo superato. Semplicemente e per sempre superato.
Sarà, appunto, due anni dopo il Lingotto. Sarà il modo per dire che i grandi obiettivi attorno ai quali ci eravamo ritrovati allora, “fare un’Italia nuova”, unire gli italiani, aprire una nuova stagione di governo per il Paese, sono gli stessi di quelli che oggi attendono il Partito Democratico. Dovremo tutti esserne all’altezza.
da www.unita.it