C’è ancora una casetta di legno, nel cortile dietro la Cigaimpianti. «L’abbiamo tenuta perché ci serve come ricovero degli attrezzi per la mega grigliata che faremo prima delle ferie, con tutti gli operai. E soprattutto per ricordare i giorni pesanti che abbiamo passato». Giorni nei quali la fabbrica era rotta e le tante casette di legno erano gli uffici e anche l’abitazione per gli operai e i tecnici che avevano perso la loro casa di mattoni. Claudio Sabatini, il titolare di questa azienda di outsourcing (fornisce ad altre imprese servizi di montaggio e manutenzione) ricorda una data precisa, nel difficile cammino della rinascita. «Mercoledì 23 maggio 2012, tre giorni dopo la prima scossa. Su cento operai, quindici non si erano presentati in azienda. Li ho chiamati uno per uno, per un incontro. Sembrava una riunione degli alcolisti anonimi. Uno alla volta, operai e tecnici hanno raccontato i loro problemi. “Mi chiamo Marco, lavoro qui da tre anni. Il mio appartamento è pieno di crepe”. “Io sono Alessio, devo sistemare mio padre, la sua casa è crollata”…».
Comincia con quella riunione la resurrezione della Cigaimpianti, che venti giorni prima della scossa, il 30 aprile, aveva festeggiato i trent’anni di lavoro e aveva inaugurato il nuovo stabilimento. Le strutture portanti del capannone alto 15 metri, con due piani, avevano retto. Ma erano crollati i con-trosoffitti, tutte le pareti divisorie in laterizio, i tre quarti dei pannelli di tamponamento… Da rifare gli impianti elettrici e di riscaldamento, da sistemare tutti gli infissi. «Ragazzi, il momento è critico. Non sappiamo ancora se dobbiamo lavorare anche di notte o se rischiamo di andare tutti a casa. Dobbiamo darci da fare». Arrivano le casette di legno, per ricollegare telefoni e computer e per dare un letto a dieci operai. Gli altri cinque trovano alloggio in due appartamenti dell’azienda. «Una parte di noi ha lavorato per rimettere in sesto il nostro capannone, gli altri sono andati nelle altre aziende danneggiate. Operai specializzati nella manutenzione in questi casi sono preziosi. Due di loro erano alla Menù, quando è arrivata la scossa del 29 maggio. Erano giovani, meno male, e con le gambe buone. Sono riusciti a scappare nel momento del crollo».
A metà marzo è ripartita anche una piccola officina che costruisce macchine per la confezione del tabacco. «Dopo lo shock iniziale – racconta Claudio Sabatini – ci siamo messi bene in pista. Da metà giugno a fine anno sono riuscito ad assumere anche dei lavoratori a tempo determinato per la messa in sicurezza dei capannoni terremotati. A Natale, quando ho detto loro che purtroppo non potevo rinnovare il contratto, invece di arrabbiarsi mi hanno ringraziato. “Tu comunque ci ha fatto lavorare per sei, sette mesi”. La crisi è anche questa, con operai che ormai sentono il lavoro come privilegio e non come diritto. Non è una cosa buona: racconta la disperazione più di tante statistiche».
I cento dipendenti dell’anno scorso sono ancora a busta paga, ma uscire dalla crisi economica è più difficile che liberarsi dalle macerie del terremoto. «Prospettive? Se fossi il comandante di una nave, non avrei bisogno del radar: si naviga a vista. Dei soldi spesi, circa 150.000 euro, per il capannone, non ne ho visto uno. La Regione assicura che i rimborsi ci saranno, non più all’80 ma al 100%. Ma il 100% di zero è sempre zero. Mi aspettavo di più, da chi amministra un territorio dove si produce un Pil da record e dove si pagano le tasse».
Finale Emilia, un anno dopo, ha ringraziato con un pranzo 650 volontari arrivati da ogni parte d’Italia. «Proviamo a rinascere – dice il sindaco Fernando Ferioli – ma è
davvero dura. Quasi tutte le aziende hanno ripreso l’attività (la cassa integrazione, nei Comuni al centro del cratere, si è ridotta da 10.000 e 2.500 unità) ma tante si trovano senza commesse. Molti negozi hanno riaperto, fra le vecchie mura o nelle casette di legno, ma le famiglie non hanno soldi da spendere. Ho 1.900 unità abitative inagibili, 1.200 delle quali in classe E, le più disastrate. Sono arrivati solo i soldi dell’Unione europea, e almeno ho potuto pagare i debiti per i 7 milioni spesi per cibo e servizi nelle tendopoli. Solo adesso qualcosa comincia a muoversi per chi ha aggiustato la propria casa e aspetta i soldi dalla Regione. Ma la burocrazia è quasi inattaccabile: il modulo Sfinge, per le imprese che chiedono finanziamenti per la ricostruzione, ha un vademecum di istruzioni di 50 pagine». «Sono ottimista, ma è dura», dice Giovanna Guidetti, della Fefa, ristorante e locanda. Piatti antichi, come la torta degli ebrei. «Nella trattoria ho perso il 50% dei clienti, la locanda è ancora chiusa perché inagibile. Ho pagato le tasse, la bonifica e tutto il resto. Anche il canone tv per la locanda vuota, per il 2012 e il 2013. Ho scritto alla Rai per chiedere una sospensione, il 2 maggio mi hanno risposto che “la vigente normativa prevede l’obbligo del pagamento in tutti i casi di detenzione di apparecchi televisivi”. Lo sanno che qui c’è stato un disastro, l’hanno fatto vedere a tutta Italia. Ecco, di fronte a risposte come questa, restare ottimisti è davvero un’impresa».
La Repubblica 20.05.13