In un Paese che muore di poca competitività e di troppe tasse ogni riduzione d’imposta è una benedizione. Per questo il blocco dei versamenti Imu è una buona notizia per gli italiani. A giugno dell’anno scorso, con la stangata sulla casa, è andata in fumo la tredicesima di molti lavoratori. Adesso almeno questo sacrificio ci sarà risparmiato. Ma solo una propaganda bugiarda e corriva può spacciare questo sgravio parziale come la spinta che serve per sostenere i consumi e rilanciare la crescita. Ha ragione Enrico Letta: questo non è «il decreto dei miracoli». Averlo riconosciuto è già una prova di onestà, e anche di responsabilità.
L’onestà è nel riconoscere esplicitamente i limiti di un provvedimento che per ora congela soltanto il pagamento dell’Imu sulla prima casa, e impegna l’esecutivo a riformare entro l’estate l’intera tassazione sugli immobili. La responsabilità è nell’ammettere implicitamente che, a dispetto delle troppe promesse seminate dai partiti prima del voto di febbraio, allo stato attuale l’Italia non ha le risorse necessarie per finanziare interventi più massicci ed «espansivi». E nonostante i ripensamenti della Merkel e la svolta di Hollande, non si può permettere il lusso di riallargare i cordoni della borsa, e di sfondare il tetto del 3% di deficit strutturale in rapporto al Pil. Almeno fino alla chiusura ufficiale della procedura d’infrazione. Almeno fino alle elezioni tedesche del 22 settembre. È il paradosso tricolore di questa fase eccezionale da tutti i punti di vista: siamo stati addirittura troppo virtuosi, pagando un prezzo altissimo al rigore ma rispettando l’impegno al pareggio di bilancio al netto del ciclo. Oggi Bruxelles ci può al massimo dire «continuate così». Non ci può certo dire «tornate a spendere in disavanzo», come invece permette per altri due anni a Francia e Spagna, che l’obiettivo del pareggio non l’hanno ancora raggiunto.
Ecco perché di miracoli non c’è traccia, nel decreto del governo. Non si può raccogliere l’appello del «popolo dei capannoni», che deve rassegnarsi a una batosta sugli immobili strumentali all’attività aziendale pari al 50% in più del 2012 e al 176% in più del 2011. Non si può affrontare la sfida più impegnativa (e quella sì, decisiva per la ripresa dell’economia reale) della riduzione delle tasse sul lavoro e del cuneo fiscale sulle imprese. Non si può aprire il dossier dei nuovi ammortizzatori sociali per chi, tra i giovani precari e gli ultracinquantenni disoccupati, non ha nessuna copertura. Ed è già tanto se Saccomanni è riuscito a trovare il miliardo necessario a coprire la Cassa integrazione in deroga, anche se per riuscirci non ha trovato di meglio che prosciugare i fondi residui per la detassazione dei salari di produttività. Come dire: con una mano si dà e con l’altra si toglie, ma sempre nelle tasche del lavoro si va a pescare.
Com’è dunque evidente, siamo solo all’inizio di un percorso, che sarà lungo, difficile e tormentato. Per questo, sul piano politico, suonano come al solito velenose e pericolose le parole di Berlusconi, che dà ancora una volta quello che tutti si aspettano da lui: il peggio di sé. Di fronte a questo decreto, pur con tutte le sue manchevolezze, la soddisfazione è comprensibile. Prima del voto il Cavaliere aveva trasformato la cancellazione e addirittura la restituzione dell’Imu nella sua bancultura
diera politica, nel suo vessillo ideologico. Ma ora passa all’incasso nel modo che gli è più congeniale: titanico, smisurato. E la provocazione diventa inaccettabile. Il congelamento dell’imposta sulla casa non è un successo condiviso nell’azione corale del governo, da offrire a un’opinione pubblica smarrita e stremata. Diventa invece l’arma impropria di una campagna elettorale che per il Cavaliere non è mai finita, e che ora lui stesso usa da vincitore contro il centrosinistra sconfitto. È lui, non Letta e non il governo, che gli italiani devono ringraziare se non pagheranno l’Imu di giugno. Ed è lui, non Letta e non il governo, che ha in mano il programma e dunque il destino dell’esecutivo.
La reazione berlusconiana tradisce così la natura più vera e profonda di queste intese larghe ma contro natura, rispetto alla
del bipolarismo sedimentata nel Paese in questi due decenni. La Grande Coalizione è poco più che un taxi, sul quale lo Statista di Arcore sale in corsa per lucrare un crescente dividendo elettorale e nel frattempo raggiungere la meta dell’impunità, se non formale di fronte ai tribunali almeno morale di fronte agli italiani. Il Cavaliere usa il Pd a giorni alterni come l’alleato malleabile o come l’avversario irriducibile, secondo la convenienza politica o il calendario giudiziario. Questa sproporzione nei rapporti di forza che regolano la strana maggioranza, anche se non giustificata dai numeri, è purtroppo suffragata dai fatti. È un problema serio, del quale il presidente del Consiglio e il Partito democratico dovrebbero farsi carico. Azzerando l’asimmetria politica. Affiancando e contrapponendo, a quella della destra, l’agenda della sinistra (se ne esiste una). Dalla lotta all’evasione alle norme anti-corruzione. Dalla riforma elettorale a quella del lavoro. Il «governo di servizio» ha senso solo se serve al Paese, non se serve solo al Cavaliere.
La Repubblica 18.05.13