Il lavoro che scompare, la casa che è a rischio, un futuro che spaventa. In meno di una settimana abbiamo dovuto mettere in fila, nelle cronache di un’Italia impaurita, vicende terribili: il muratore disoccupato che in Sicilia perde la casa per un debito di 10 mila euro con la banca e si dà fuoco, ustionando anche la moglie e due poliziotti, il giovane licenziato che nel Milanese uccide a sangue freddo il datore di lavoro e il figlio, l’artigiano di Savona che proprio ieri brucia in un rogo la sua vita. Storie diverse che non si possono accomunare con superficialità.
E storie le cui cause stanno talvolta anche in situazioni psicologiche fragili, ma che hanno comunque un tratto comune: sono segnali di resa individuale che amplificano, seppure con un effetto di forte distorsione, la paura e il disorientamento di un’intera società.
Dietro i suicidi degli imprenditori o dei disoccupati e la folle rabbia di chi impugna una pistola per farla finita con il datore di lavoro o con lo Stato – sia esso rappresentato dalle povere impiegate della Regione Umbria uccise in marzo, o dai Carabinieri attaccati mentre erano di servizio davanti a Palazzo Chigi – si legge il logorarsi della coesione sociale, di quel meccanismo che quando funziona è fatto di mille fili spesso impalpabili ma che tutti assieme resistono alle tensioni e permettono di non abbandonare al suo destino chi non ce la fa.
Non è un problema solo economico, ma è anche un problema economico. A cinque anni dall’inizio della grande crisi finanziaria e dopo almeno un ventennio che l’Italia paga – anche e soprattutto in termini di posti di lavoro – le sue carenze di produttività, non c’è del resto da stupirsi se gli effetti della crisi si fanno sentire soprattutto su quel grande ammortizzatore sociale che è – o è stata – la famiglia. Uno studio pubblicato in febbraio dalla Banca d’Italia su «Il risparmio e la ricchezza delle famiglie italiane» segnala come solo nel periodo 2008-2010 la loro capacità di risparmio sia scesa sotto la media dell’area euro e avverte che «nel 2010 il 9 per cento delle famiglie italiane aveva un reddito basso e, in caso di perdita del lavoro, una ricchezza finanziaria sufficiente per vivere al livello della linea di povertà per appena sei mesi».
Chi fa informazione ha il dovere di non assuefarsi allo stillicidio di notizie tragiche, che rischiano di finire rapidamente nel calderone del già visto e già sentito. Chi fa politica ha invece il dovere di prendere questi segnali per quello che sono: episodi patologici, certamente, ma anche sottolineature violente, vere e proprie macchie, su quel diario di speranze e preoccupazioni che un intero Paese scrive in silenzio giorno dopo giorno: che ne sarà del mio posto di lavoro? Servirà far studiare i miei figli? Riuscirò a comprare una casa?
Ricevendo l’incarico di formare il governo Enrico Letta ha messo l’occupazione, specie quella giovanile, al centro dell’azione dell’esecutivo. Nel giorno del primo decreto che contiene delle misure destinate a ridare in qualche modo fiato all’economia la scelta è quella di concentrarsi sulla sospensione dell’Imu – punto qualificante del programma elettorale del Pdl – e sul rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga.
Sull’efficacia di un taglio dell’Imu per aumentare il reddito disponibile delle famiglie, spingendo così i consumi, i pareri sono discordanti. Ne abbiamo parlato con un dibattito articolato su queste pagine nelle ultime due settimane. Pare comunque difficile che i soldi che gli italiani non verseranno di acconto Imu a giugno entrino per ora – prima di sapere entro fine agosto come verrà tassata la casa – nel ciclo economico. Il rifinanziamento della Cassa integrazione in deroga è un atto importante, anche alla luce delle risorse che alla fine si è riusciti a trovare, ma sostanzialmente obbligato per far fronte proprio alla caduta dell’occupazione. I provvedimenti di ieri – come Letta sa bene – sono un inizio, ma non sono che un inizio.
La Stampa 18.05.13