Insieme all’augurio più affettuoso vorrei trasmettere con questo scritto alcune mie idee a Guglielmo Epifani. Il segno dello smarrimento del Partito demoocratico io lo vedo nell’incapacità di mettere i piedi per terra. Di collocarsi (questo voglio dire) al centro del conflitto vero, là dove si decide, là dove si vince o si perde nel mondo degli interessi reali e a vantaggio di chi e di che cosa. La cosa più triste è che ci siamo impantanati in polemiche, rotture e rese dei conti interni e non riusciamo a misurarci con la questione più grande e la più carica di interrogativi. Quale? Con ciò che uno storico come Massimo Salvadori considera ormai come il profilarsi di una crisi di regime: del regime democratico e parlamentare italiano. Che poi – aggiungo io – è parte di una crisi più ampia che investe l’Europa: una crisi dell’economia che si sta trasformando in crisi della sovranità e della cittadinanza.
Dico questo non per sfuggire al «qui e ora» ma perché solo se ripartiamo da una comprensione della realtà che sta fuori di noi possiamo affrontare in modo serio i guai che sono dentro di noi. E ritrovare, al tempo stesso, il «cosa fare», gli spazi nuovi che si offrono a una sinistra moderna e quindi i compiti che le cose le impongono.
Rileggiamo bene il voto di febbraio. Esso dice molte cose. Intanto, che noi non solo perdiamo voti ma li perdiamo soprattutto tra i giovani e gli operai. Il segnale è chiaro. La crisi del Pd è il riflesso di fratture sociali e culturali che sempre più si approfondiscono e che nessuno governa. Non si illudano i nostri «concorrenti». Più di metà del Paese si astiene oppure vota per un partito (Grillo) che esprime non solo una protesta ma una vera e propria estraneità rispetto alle Istituzioni democratiche. Ma non è nemmeno vero che la destra vince. Essa resta un coacervo di forze e di interessi tenuti insieme da un «padrone». E proprio qui sta la sua debolezza. L’eterno ritorno di Berlusconi la dice lunga sulla mancanza di identità del mondo moderato italiano e sulla sua incapacità di guidare l’Italia in Europa.
Il problema è capire come siamo arrivati a questa situazione. Se ne discuterà al congresso. Sarà il nostro banco di prova. Io dico la mia. Penso che il problema principale nostro, se vogliamo ritrovare radici e farci capire dalla gente anche sulle tattiche e i compromessi che sono necessari (la questione del governo, per esempio), e se vogliamo stare dentro i movimenti sociali e capire le nuove soggettività, se quindi vogliamo svuotare di senso il correntismo, il nostro problema, dicevo, è tornare al centro dello scontro reale che scuote il mondo, e lo trasforma. Parlo della necessità di misurarci con il fatto che si è venuto a creare un pericoloso intreccio tra la crisi delle tradizionali sovranità democratiche e il più gigantesco spostamento di risorse, sia dall’Europa ai Paesi nuovi sia dai «poveri» verso i «ricchi» forse mai visto. È in questo modo che settori essenziali delle classi medie sono state spinte verso la miseria e che il lavoro è stato ridotto e una condizione servile. Al tempo stesso la ricchezza si è concentrata in modi tali quali non si erano più visti dopo il Medioevo e la rivoluzione francese. Questo da un lato. Dall’altro il fatto che le tradizionali sovranità popolari (nazione, cittadino, diritti) e l’antico potere decisionale dei parlamenti nazionali sono stati colpiti. A ciò bisogna aggiungere il fallimento del mercato come garante dei beni pubblici e della salvaguardia dell’ecosistema. Mi domando: si è mai parlato di cose come queste – di assoluta evidenza – nelle riunioni tra i nostri gruppi dirigenti? Eppure non stiamo parlando solo dell’economia ma della morale. Della condizione dell’uomo. Stiamo parlando di qualcosa che ha cambiato le menti. È il problema che in diversa misura sta tormentando tutto il riformismo europeo. E che la Chiesa cattolica – stiamo attenti – avverte più di noi come dimostra la scelta del nuovo papa.
Naturalmente, a noi spetta occuparci dell’Italia e non possiamo sfuggire alle nostre responsabilità per il fatto che l’Italia non fa da decenni le riforme necessarie e quindi più di altri Paesi viene investita dagli effetti di questo stato di cose. Nel frattempo una potente ideologia (ecco il paradosso) dice alla gente che non c’è niente da fare perché l’economia è una legge naturale. E quindi è inutile protestare né tantomeno votare a sinistra. Sono i «mercati» che comandano. Intendiamoci bene. Non è il fascismo, ciò di cui sto parlando. È il fatto (come io stesso ho scritto già molte volte) che i mercati governano, i tecnici amministrano e i politici vanno in televisione a farsi beffeggiare. Non è il fascismo. È ciò che la politologia chiama la «post-democrazia». Vogliamo farci i conti?
Il congresso deve dare una nuova identità al Pd. Giusto. Evidentemente una identità che non rinneghi ma rinnovi il nostro essere una forza riformista e di governo. Ma qui è la difficoltà che non possiamo fingere di non vedere. Come è possibile farlo senza misurarci con la «post-democrazia»? Io penso che se il Pd non ha decollato e se ovunque la vecchia sinistra entra in crisi (vedi la Francia) è perché non abbiamo un pensiero politico all’altezza di questo sistema-mondo. Ricordiamoci (ecco perché la crisi della democrazia è il problema centrale) che il riformismo funziona in quanto presuppone una democrazia che decide, e un sistema parlamentare che non solo rispecchi i diversi progetti politici e sociali che si sono espressi nel voto ma che abbia il potere di renderli realizzabili. E che quindi renda «utile» il voto anche agli occhi dei ceti subalterni. La sfiducia nasce da qui.
È evidente quindi di quale riforme abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di un partito che non combatta solo dall’alto (a livello del governo), ma che sappia scendere anche nel «basso» là dove si forma un nuovo protagonismo della società. Dobbiamo essere noi gli interpreti di quel vasto mondo di diritti, di bisogni, di persone che il sistema e la rivoluzione scientifica della comunicazione non ha solo sfruttato ma ha messo in movimento. È alle menti che bisogna parlare. Non sottovalutiamo l’impressionante martellamento quotidiano di tv e di giornali volto a dirottare la rabbia della gente contro la «casta» politica e non contro i loro padroni.
Stiamo pattinando su una lastra sottile di ghiaccio. La democrazia è in pericolo e i prossimi mesi saranno decisivi. Il Pd deve combattere.
L’Unità 14.05.13