attualità, politica italiana

"L’equivoco della pacificazione", di Gad Lerner

Fra i compiti attribuiti dai sostenitori della “pacificazione nazionale” al governo Letta-Alfano primeggia l’archiviazione di quella che deprecano come la peggior malattia della sinistra: l’antiberlusconismo. Per uscire dalla paralisi che attanaglia il paese, i “pacificatori” si augurano che venga dato a Berlusconi il riconoscimento politico negatogli fin qui da cattivi maestri che per loro convenienza, e accanimento personalistico, sarebbero giunti a snaturare le finalità storiche della sinistra.
In effetti Berlusconi merita di essere riconosciuto per quello che è, tanto più oggi che la sua forza lo rende indispensabile al governo del paese. Ma se anche potessimo mettere tra parentesi la questione giudiziaria che lo attanaglia e le sue pretese di immunità, dare il giusto riconoscimento politico a Berlusconi può davvero limitarsi a una presa d’atto del suo consenso elettorale? Davvero l’antiberlusconismo può essere liquidato come uno stato d’animo immaturo, esacerbato, settario?
Colpisce che simili argomenti si facciano strada anche dentro al Pd, dove personalità distanti fra loro, da Emanuele Macaluso a Mario Tronti, si ritrovano unite nel lamentare “la centralità dell’antiberlusconismo come unico collante di un partito disunito. Eredi della realpolitik di vecchia scuola comunista — in non casuale sintonia col risorto pragmatismo governativo di matrice democristiana ��� essi ci sollecitano ad accettare Berlusconi come legittimo rappresentante della destra italiana, ci piaccia o non ci piaccia dotata di radici profonde nella nostra società. Vero. Ma si tratta per l’appunto della nostra societ à che per vocazione storica e per urgenze contemporanee la sinistra dovrebbe proporsi di trasformare. Con processi di redistribuzione del reddito, di rilancio economico e di riforme istituzionali che inevitabilmente mettono in discussione i suoi interessi consolidati.
L’antiberlusconismo, quindi, da tanti liquidato come uno stato d’animo nevrotico, merita invece di essere riconosciuto come conseguenza necessaria di un’analisi del sistema italiano. Anche a prescindere dalla personalità fortissima cui da un ventennio lo intestiamo.
Stiamo parlando di un sistema in grave declino che ha visto acuirsi al suo interno le distorsioni del libero mercato, accrescersi i fatturati dell’economia criminale e dilagare la tolleranza di pratiche illegali, consorterie opache, rendite di posizione, conflitti d’interesse. Non si tratta di un fenomeno solo italiano, ma nel nostro paese s’è imposto in misura tale da provocarne il dissesto e un impoverimento drammatico.
Adoperando un linguaggio marxista caro a Tronti, sarebbe poi così lontano dal vero definire il berlusconismo come malattia degenerativa del capitalismo italiano, con riflessi diretti sugli apparati dello Stato e sulla rappresentanza democratica? Ripeto. Non si tratta di indugiare sul ruolo di una singola figura, benché protagonista. Quante volte, sottovoce, abbiamo sentito dire: quando Berlusconi uscirà di scena tutto sarà più semplice. Ne siamo proprio sicuri? Cosa ci fa supporre che un Pdl nelle mani del suo plenipotenziario Verdini si avvierebbe verso la normalizzazione? Il berlusconismo è anche una forma di potere impersonale, una fisionomia assunta da comparti significativi dell’economia e dell’oligarchia, che non si esaurisce nel suo leader.
Per questo l’antiberlusconismo va riconosciuto come un���analisi del sistema italiano, presupposto di un’azione politica di cambiamento che non si riduca a manutenzione dell’esistente.
È interessante, a tal proposito, notare come Berlusconi abbia voluto enfatizzare l’analogia fra la sua vicenda e quella di Andreotti. In una fase storica precedente, anche l’andreottismo si configurò come sistema in grado di tenere assieme — all’ombra dei suoi misteri — interessi all’apparenza distanti come il Vaticano, gli apparati dello Stato, la cultura di massa, insediamenti di economia criminale. Si caratterizzò cioè come una forma del potere, al pari di quel che divenne il berlusconismo in seguito. Se proprio vogliamo sottolineare la diversità fra i due fenomeni, ricordiamo che l’andreottismo rappresentava solo una componente della Dc con cui Berlinguer tentò l’esperimento dell’unità nazionale, rimanendo per lo meno a parole asserita la lealtà del Divo Giulio ai principi costituzionali. Il berlusconismo viceversa si è impossessato di un intero versante politico e con esso di una parte vitale del sistema. Ciò che rende irrealistico un suo coinvolgimento in progetti di riforma strutturale, destinati a scontrarsi col suo istinto di sopravvivenza.

La Repubblica 08.05.13