attualità, cultura, pari opportunità | diritti, politica italiana

"Tre omicidi in poche ore. Il senso malato del mondo", di Sara Ventroni

Non ce la caveremo con un minuto di silenzio, in nome delle donne. Non ce la caveremo con una corona di fiori o un rosario di nomi sgranato come un bollettino di guerra. La trama è ormai prevedibile, come un format. Una liturgia quotidiana. E le pagine di cronaca nera non sono certo un anticipo di gloria.
Qualcuno piange lacrime asciutte per Ilenia Leone diciannove anni strangolata a mani nude, con i vestiti da cuoca ancora addosso, calati sulle gambe. Il suo corpo senza vita è stato ritrovato in un uliveto silenzioso, a Castagneto Carducci, vicino Livorno.
Qualcuno piange per Alessandra Iacullo, trent’anni, accoltellata alla gola, ritrovata accanto al suo motorino, in un luogo desolato, tra Ostia e Acilia: la Riserva del Pantano.
Periferie. Campagna. Alberi come testimoni muti. Oppure una camera da letto, un salotto, una cucina. La location non conta. È solo una variazione su tema. Lo sanno tutti che l’assassino ha le chiavi di casa. Lascia sempre le impronte, prima del delitto: centinaia di messaggi, telefonate. O qualche livido nero sul braccio. Ma non chiamatelo amore. E non chiamatela passione.
Non ci è concessa alcuna commozione. L’empatia lascia il tempo che trova. E non dobbiamo appassionarci alla saga.
Non ce la caveremo con la foto-tessera di lei che sorride: non immaginava certo che proprio quello fosse il momento per finire nel numero indistinto delle statistiche: ogni due giorni una donna viene uccisa, per mano di un ex marito, un fidanzato geloso, uno spasimante rifiutato, un passante pieno di voglia. E avanti il prossimo.
Non ce la cavermo con un racconto minuzioso del contesto: gli amici che si stringono nel dolore, portando a spalla la bara, e i negozianti dei paraggi che mai se lo sarebbero aspettato. Serrande abbassate. Lutto cittadino.
Non ce la caveremo con un’intervista al fratello dell’assassino o un reportage di costume, infiorato di dettagli sempre più crudeli, perché l’opinione pubblica ha fame di novità. È già assuefatta. E la morte, da sola, non basta più.
Non ce la caveremo con gli esperti. Gli psicologi, i criminologi, gli opinionisti: come se tutto si potesse spiegare con una psiche fragile e labile, una relazione andata in malora, finita con un discreto spargimento di sangue.
Perfino la presidente della Camera, Laura Boldrini donna senza corona e senza scorta – assalita ogni ora da anonime fantasticherie omicide sessiste, si sente in dovere di richiamare l’attenzione come se, al netto dei mitomani messi in conto dal suo ruolo, la questione fosse più che personale.
L’unico gesto possibile – in assenza di risarcimento morale è solo politico. E passa per le parole. Dare un nome alle cose è un buon inizio: non si tratta di uxoricidio o di amore molesto. È femminicidio.
Questa parola nuova di zecca nel vocabolario comune racconta di noi, del nostro Paese, molto di più di quello che vorremmo sapere. È un’espressione che viene da lontano. Ci parla degli uomini che portano i pantaloni, che siedono a capo tavola. Che non conoscono rifiuti.
Femminicidio è un sostantivo che sta sulle nostre spalle contadine, più di quanto la nostra cattiva coscienza possa immaginare.
La morale è ancora la stessa: ti uccido perché non vuoi essere mia, come dovresti essere, per destino e per natura. Mentro ti uccido so che gli altri, un pochino, mi capiranno.
Non possiamo stupirci: fino a qualche anno fa, un marito o un fratello potevano chiedere lo sconto di pena, in nome dell’onore salvato. Le donne erano proprietà privata dei maschi di casa.
Ci giriamo intorno, ma il pensiero inconfessabile è sempre lo stesso. Non esplode all’improvviso. È un senso del mondo. Non si chiama raptus, né amore. Il disegno è lì. Elementare. Come un palinsesto primitivo. Così semplice agli occhi, eppure così difficile da interpretare. L’impeto che precede il gesto violento non viene dal nulla. Non esiste il vuoto della mente.
Nella cronaca nera quotidiana c’è, al fondo, un segreto inconfessabile. Qualcosa che ancora resta da raccontare. Per questo non saremo assolti dal silenzio, ma dalle parole.

L’Unità 04.05.13