La democrazia è limite. Per saperlo non c’è bisogno di aver letto Montesquieu. Perché non si abusi del potere, occorre un altro potere che lo possa arrestare. Il Ventennio di Berlusconi, purtroppo, è una storia di abusi di potere. Una seducente accumulazione di conflitti di interesse e di conflitti tra poteri dello Stato. Esecutivo contro giudiziario, attraverso l’uso strumentale del legislativo. Governo contro organi di garanzia, dal Quirinale alla Consulta. Basterebbe già questo, cioè la pura e semplice cronaca dei fatti di questi anni, per capire e giustificare l’ovvio. E cioè che affidare proprio al Cavaliere la presidenza della Convenzione per le riforme istituzionali e costituzionali è sommamente dissennato. Ha fatto bene Massimo D’Alema a dirlo per primo, in un’intervista al Corriere della Sera, parlando di una candidatura «non inammissibile», ma di una «forzatura inopportuna». E hanno fatto ancora meglio Stefano Fassina e Matteo Renzi a ribadirlo, in una dichiarazione al nostro giornale: «Ora non esageriamo: un conto è fare un governo con il Pdl perché non ci sono alternative, altro è dare la Convenzione a Berlusconi. Non possiamo arrivare a trasformarlo in un padre costituente». Meglio di così non si poteva dire. Ed è significativo che una riflessione così netta e inequivocabile sia arrivata proprio dal sindaco di Firenze, stimato dal centrodestra e non certo sospettabile di appartenere alla schiera degli “odiatori dell’arci-nemico”, cioè degli anti-berlusconiani in servizio permanente effettivo.
Qui non sono in gioco le trite categorie ideologiche del berlusconismo e dell’antiberlusconismo, con le quali troppe volte una propaganda culturale egemone e corriva ha provato a liquidare in questo arco teso del tempo l’alternativa tra destra e sinistra, oppure quella tra sinistra riformista e sinistra radicale. È in gioco la storia italiana di questi anni, che per quanto anomala non si può curvare fino al punto di farla coincidere con la vicenda umana del Cavaliere. Di fronte a un risultato elettorale che non ha prodotto vincitori e vinti, e al “male necessario” di un governo di Grande Coalizione di cui il Cavaliere detiene oggettivamente la golden share, è comprensibile che il leader risorto della destra populista sia irresistibilmente attratto dalla prospettiva di una palingenesi finale, di un riscatto definitivo, etico e politico, che lo ri-legittimi agli occhi del popolo (e non solo del “suo” popolo) e lo proietti finalmente nella dimensione che lui stesso insegue da sempre, e inutilmente: quella dell’Uomo di Stato. Una dimensione che non gli appartiene e non gli è mai appartenuta. Gli è stata semmai più congeniale quella opposta: il campione paradossale e rappresentativo di un’élite in perenne rivolta, il simbolo vivente e combattente, se non dell’anti-Stato, sicuramente di un “altro Stato”.
La Convenzione è già di per sé una scorciatoia impropria verso un’improbabile Terza Repubblica. Non serve nemmeno rievocare i precedenti, infausti perché praticamente improduttivi (dalla Commissione Bozzi in poi) o nefasti perché potenzialmente consociativi (l’ultima Bicamerale). Per fare le riforme basterebbe il coraggio di un Parlamento responsabile e la forza dell’articolo 138 della Costituzione. Ma ammesso comunque che l’Italia di oggi abbia bisogno di uno strumento del genere, affidarne la guida proprio al leader che più di ogni altro ha diviso il Palazzo e il Paese, e che più di ogni altro ha picconato le istituzioni, sarebbe davvero incomprensibile. Per tutti, eletti ed elettori. I “falchi” rinvigoriti della destra berlusconiana reagiscono a sproposito, evocando il veto infamante agli “impresentabili” o parlando di «pregiudiziali inaccettabili». La vera questione è un’altra, e chiama in causa la coerenza e la decenza.
Come ha giustamente ricordato Stefano Rodotà, già nel 2006 il Cavaliere presentò e fece approvare a maggioranza al Parlamento una “sua” riscrittura della Costituzione e della forma di governo, che fu bocciata da sedici milioni di italiani con tanto di referendum confermativo. Come testimoniano le cronache politiche di questi anni, il Cavaliere ha più volte teorizzato la sua idea di “Repubblica presidenziale”, e propugnato l’elezione diretta del capo dello Stato, candidandosi pubblicamente a rivestire anche quel ruolo. Ora, senza alcuna acrimonia personale e politica, e con buona pace del suo Dottor Stranamore per le vicende giudiziarie Niccolò Ghedini, Berlusconi non merita il laticlavio di senatore a vita. Ma meno che mai merita il profilo di padre della Patria, che invece conquisterebbe sul campo se fosse proprio lui a guidare l’organismo deputato alla riscrittura di un gioco democratico che ha troppo spesso manipolato, falsato, stravolto. La “Convenzione ad personam” sarebbe davvero troppo. Persino per questa nuova, stupefacente “epifania” delle larghe intese.
La Repubblica 04.05.13