Passa appena per un saluto. «Non chiedetemi niente, non dico niente», risponde Pierluigi Bersani sul portone della sede del Nazareno. E su al terzo piano, davanti a questi cento segretari Pd arrivati da città, province e regioni, ha davvero poco da aggiungere. Forse, in questo stanzone, è il suo ultimo intervento da segretario dimissionario. Il partito lo conosce bene, i parlamentari forse meno. E sa che lontano da Roma non sono solo i bolognesi di “#ResetPd”, o i torinesi di “OccupyPd”, a non aver capito. «Vi ringrazio per tutto quello che avete fatto. Ora vi raccomando il bene della Ditta». Applausi, rimpianti. E altro.
Perchè i cento son venuti qui per sapere cosa è successo. «Perchè mi chiamano, mi chiedono, mi dicono “sei tu che ci rappresenti” e ancora io non so cosa rispondere», come sta spiegando Marco Zanolla, goriziano con una gran coda di capelli. C’è Roberto Speranza, il capogruppo, che provvede alla «relazione introduttiva», e come sempre si vola alto: «Cos’è il Pd? Cosa ci tiene uniti? Quali obiettivi ci diamo? ». E poi giù in picchiata, per dire «che il Pd deve sostenere convintamente il tentativo di Enrico Letta». Certo che sì. Uno esce e telefona: «O è così o ci bruciamo l’ultimo pezzettino di credibilità rimasto».
Di solito, in riunioni come questa, un paio d’ore e tutti a casa, questa è la linea, avanti così. Ieri no. salone più pieno del solito, nessuno che rispetti i cinque minuti, interventi che debordano. Finisce che non finisce, si ritroveranno, almeno in venti che debbono ancora dir la loro. Ultimo a parlare è stato Stefano Bonaccini, modenese, segretario dell’Emilia-Romagna, gli azionisti di maggioranza del Pd «convintamente» deciso a farsi sentire. La sera prima del non voto per Franco Marini era stato proprio Bonaccini a mandare il primo allarme alla sede del Nazareno: «Fermatevi! ». E vuol partire da quella sera, Bonaccini.
«No, non dite che è colpa di Twitter – e ha già passato i cinque minuti -, io ho il cassetto pieno di mail mandate dai nostri iscritti». E’ l’ultimo a parlare, Bonaccini. Forse è il più autorevole, ma non è l’unico. I toscani di Livorno. Gli emiliani e i romagnoli tutti. E Daniele Zoffoli, segretario di Cesena, ha guardato il capogruppo che si chiama Speranza prima di chiudere con una frase da titolo del disagio: «La nostra rabbia è la nostra speranza! ». La rabbia di chi sta aspettando risposte, chiarezza. «Meglio la rabbia della rassegnazione», spiega poi. «Ma quella vigliaccata dei 101 che hanno tradito Prodi deve venir fuori. Non possiamo accettare che il dubbio ricada su tutti».
Rabbia e speranza, come quella dei giovani Pd di Bologna o Torino. «Al terzo piano la voce della base l’abbiamo portata noi», dice Paola Bragantini, deputata e segretaria torinese: «Il gruppo dirigente deve capire che è importante il merito, ma anche il metodo». Più che la testa, nelle periferie del partito, ora comandano pancia e cuore: vuota la prima, a pezzi il secondo. Rabbia, per rimanere nella sede del Nazareno, che si sente anche dalle telefonate che arrivano al centralino: «Non ne posso più di questo partito Pd-Pdl! », urla una signora di una certa età. O da chi, dalla strada, vede arrivare Giuseppe Fioroni, l’ex ministro dell’istruzione: «Ecco il democristiano, vattene! ».
Alle tre del pomeriggio i cento escono e se ne vanno di fretta. C’è chi vuol parlare solo del sì al governo Letta. Bonaccini spera in «un governo di scopo, con una squadra giovane, innovativa». Poca voglia di raccontare la rabbia e la speranza. Che poi non è così, o non sarebbe così, dappertutto. «Mi sembra sia successo a macchia di leopardo, o di giaguaro… », dice Antonio Castricone, deputato e segretario del di Pescara: «Ma adesso, più che la Ditta il problema è il Paese». Perchè, e questo è Roberto Speranza, «il Pd deve mettere al centro l’interesse dell’Italia con l’assunzione di responsabilità da parte di tutti». E di tutto il Pd.
E’ che non sarà semplice spiegarlo a quelli di «#ResetPd» o di «#OccupyPd», o alle altre macchie di giaguaro. Proprio la parola «responsabilità» da quelle parti è la più detestata, presa con sospetto e diffidenze. «Ora che siamo tutti impegnati nel sostenere Enrico Letta – dice Maurizio Martina, segretario del Pd di Lombardia – dobbiamo metterci alla testa di questo progetto e riempirlo di contenuti». E c’è da battere la rabbia: «Ci saranno complicazioni e difficoltà, non sarà immediato, ma dobbiamo guardare in faccia questa nuova realtà. Noi segretari dobbiamo fare quel mestiere». Perchè la rabbia fa male alla Ditta.
La Stampa 27.04.13