Pare che Enrico Letta ce la farà a formare il Governo. Quanto durerà non è dato sapere. La speranza è che duri il tempo ncessario per fare alcune riforme inderogabili. Una di queste è quella di dare al paese un sistema di regole per poter tornare a votare, prima o poi, con la ragionevole aspettativa che dalle urne esca una maggioranza in grado di governare, possibilmente per una legislatura. Nelle condizioni in cui siamo questo è certamente un programma ambizioso. Sia quello di fare le riforme che quello di un governo stabile. La stabilità dei governi, e tanto più la loro efficacia, non dipendono solo dalle regole. La crisi che stiamo attraversando non è solo il frutto della lotteria del Senato. I veri fattori sono altri: la frammentazione della rappresentanza, la polarizzazione delle posizioni e con ciò la presenza di partiti difficilmente coalizionabili tra loro. A sua volta tutto ciò è il frutto della crisi economica, della domanda di moralizzazione della vita pubblica, della voglia di cambiamento cui i partiti tradizionali non hanno dato risposte credibili. Ciò premesso, resta il fatto che senza buone regole non si può costruire nulla di duraturo. E allora il futuro governo deve mettere in cantiere alcune riforme non solo istituzionali ma anche costituzionali. La prima è l’abolizione del Senato. Non ha alcun senso oggi avere due camere con gli stessi poteri, compreso quello di dare e togliere la fiducia al governo. Siamo rimasti l’unico Paese al mondo con una istituzione del genere. Quanto ci vorrà ancora prima di diventare anche da questo punto di vista una democrazia normale? Oggi l’opinione prevalente è quella fissata dai saggi nel loro rapporto. Lì si parla della trasformazione del Senato in una camera delle autonomie. È una soluzione certamente migliore dell’attuale, ma oggi vale la pena di chiedersi se non sia il caso di andare oltre e puntare piuttosto sul rafforzamento della conferenza Stato-Regioni invece che sul mantenimento di una seconda camera, pur depotenziata. In ogni caso è da qui che bisogna partire, dalla questione del Senato. Poi si può discutere di riforma elettorale. In altre parole, qualunque sia il sistema elettorale prescelto deve funzionare in una sola camera. Questa è una condizione necessaria di governabilità. Ma non basta perché non è affatto indifferente quale sarà il sistema elettorale prescelto. La soluzione più semplice sarebbe quella di introdurre doppio turno e voto di preferenza dentro l’impianto del l’attuale sistema. Il doppio turno risolverebbe il problema della disproporzionalità, cioè la distorsione voti ottenuti-seggi garantiti, quella che ha consentito alla coalizione di sinistra di avere il 54% dei seggi con il 29% dei voti. Con il ballottaggio chiunque vinca, e qualunque sia la sua base di consensi al primo turno, alla fine avrebbe in ogni caso la maggioranza assoluta dei voti espressi. Questo è l’unico sistema a produrre con matematica certezza un vincente con una maggioranza assoluta di voti e di seggi. Per essere ancora più chiari, è l’unico che consente la sera delle elezioni di sapere con certezza chi governerà il paese. Il voto di preferenza (con l’abolizione dello scandalo delle candidature plurime) restituirebbe agli elettori la scelta dei rappresentanti. Fatte queste modifiche, avremmo un sistema elettorale unico al mondo ma che funziona. Questa è una soluzione. Ma ce ne sono ovviamente altre. Tra queste spicca la richiesta di tornare alla legge Mattarella.
. Per qualcuno sarebbe addirittura una cosa da fare per decreto. Il sistema con cui si è votato dal 1994 al 2001 era imperniato sui collegi uninominali a un turno. Il collegio uninominale sarebbe lo strumento giusto, molto più del voto di preferenza, per restituire agi elettori la scelta dei rappresentanti. Peccato però che sulla reintroduzione dei collegi ci sia un veto esplicito del Pdl, sia nella versione a un turno che in quella a due turni. La posizione inequivocabile del Pdl, espressa da Gaetano Quagliariello anche nel rapporto dei saggi, è che il collegio uninominale si possa introdurre solo se abbinato alla elezione diretta del presidente della repubblica. E questo implica il passaggio da una forma di governo parlamentare a una semi-presidenziale di stampo francese. Se questa fosse la strada scelta dal governo Letta, allora ci sarebbe da aprire un dibattito serio sulla vera alternativa al sistema francese e cioè l’elezione diretta del primo ministro e non del presidente della repubblica. Questo è il modello adottato per comuni, province e regioni. Esso prevede insieme alla elezione popolare del capo dell’esecutivo l’uso di sistemi elettorali con un premio che garantisce la maggioranza di seggi in consiglio a chi vince. Per completare il quadro non si può mettere in conto anche una altra possibilità, e cioè il ritorno a un proporzionale più o meno mascherato. È inutile nascondercelo. In condizioni, come le attuali, di grande fluidità elettorale la voglia di proporzionale è tanta. Il proporzionale minimizza i rischi. Rimanda le scelte a dopo il voto. Esattamente come è successo con queste elezioni. Mette i partiti al centro della partita al posto degli elettori. Proprio per questo c’è il rischio che gli attuali partiti trovino un accordo su un sistema del genere, magari risuscitando i vari “lodi” con i quali si è tentato di fare la riforma elettorale alla fine della passata legislatura. Ebbene, qualcuno si è chiesto cosa sarebbe successo in queste elezioni se uno qualunque di quei “lodi” fosse stato approvato?
Il Sole 24 Ore 27.04.13