La Bolognina 2.0 non sarà una mozione congressuale, è una mozione degli affetti. È il Piave dello sgomento organizzato dei militanti dopo l’atroce Caporetto del voto per il Quirinale. Ma è pur sempre una reazione. «Qui c’è più futuro che passato», si rincuorava Giorgio Prodi, figlio di Romano, assistendo in disparte all’assemblea autoconvocata nella sezione di partito che porta un nome che risuona ancora, nella storia della sinistra italiana, e che non riesce a tornare ad essere solo un’espressione geografica, tant’è che pure Matteo Renzi, nel tour delle primarie, pur di parlare alla Bolognina prenotò il locale cinema dei salesiani. In platea, centocinquanta ragazzi seduti per terra, sulle scale, che twittavano #resetPd, che parlavano leggendo dal tablet, che fotografavano con gli smartphone, ma erano lì a presidiare un luogo fisico della politica ancora non dato per perso «Sono la cosa più vicina al Pd che immaginava mio padre nel ‘96».
Sul palco, tre giovani assessori della giunta Merola, Matteo Lepore, Luca Rizzo Nervo, Andrea Colombo, e un consigliere comunale che fu braccio destro di Cofferati, Benedetto Zacchiroli: bersaniani i primi, renziano il quarto, accomunati quel pomeriggio dalla camicia bianca, che è ormai il dress-code di quella parte del Pd che bombarda il quartier generale. Ma con qualche distinzione. «Non rottamare, ma resettare», è la parola d’ordine. «I nostri dirigenti si sono rottamati da soli», insiste Lepore. «Ma se paga solo Bersani è sbagliato», aggiunge il presidente di quartiere Daniele Ara. Non sulle persone, ora bisogna intervenire sulla macchina. «Riparare l’errore di sistema, bloccare il virus», Colombo insiste sulla metafora del computer. Il virus è la fusione fredda «tra gli ex», ex-Pci ed ex-Dc. Non è un caso che, chiunque abbiano votato alle primarie, gli autoconvocati siano in gran parte “nativi” del Pd. Il problema dunque non si risolve «né con la pattumiera né con la scissione», insiste Colombo, «dobbiamo spegnere il Pd che non è mai partito, e riaccenderlo per riavviare il processo». Promettono nuove assemblee autoconvocate, prestissimo: «il fattore tempo è decisivo». E allora si capisce che “Bolognina” vale come richiamo mitico al coraggio delle scelte radicali, ma che il riferimento politico vero ha un altro nome, quello di Romano Prodi, il padre dell’Ulivo, tradito, pugnalato alle spalle. «No, non è stato un agguato a una persona», precisava quella sera il figlio Giorgio, «quel che è successo nel Pd in Parlamento, e mio padre non ha bisogno di fare i nomi, è stato un atto politico, molto chiaro e molto vecchio».
Bologna, in questo, è tutta una Bolognina. «Rivoglio il mio voto», ha trovato scritto su diversi post-it appesi alla porta del circolo Pd Galvani (quello dove fa la tessera Prodi) la segretaria Cecilia Alessandrini, e ha risposto, sconsolata: «Hanno ragione». E il Pd del Navile, il quartierone popolare oltre la ferrovia che comprende anche la Bolognina, prima dell’incarico a Letta si è riunito d’urgenza votando un documento che «manifesta e ribadisce la contrarietà a un governo col Pdl». «E non si dica che è una protesta marginale», ammonisce il consigliere regionale Antonio Mumolo, «in questo quartiere abbiamo più iscritti che in tutta la Basilicata».
I dirigenti fiutano l’aria e si allineano. C’è un gran vento di riposizionamento sotto le Due Torri. Il segretario della federazione forse più bersaniana d’Italia, Raffaele Donini, veleggia verso Renzi. Il sindaco Merola che capeggiava il comitato elettorale di Pierluigi ha già saltato la barricata. Muto nelle torri di Kenzo Tange, il governatore Vasco Errani, gran consigliere
di Bersani, non può certo farlo. Nessuno ancora gli spara addosso, ma per il successore ora si invocano le primarie.
Eppure alla fine dovranno tutti baciare il rospo, anzi il Caimano. «Meglio fare un governo a tempo col nemico che mandarlo subito al potere da solo», si rassegna alla realpolitik Marco Lubelli, segretario del circolo Passepartout che lui stesso, assieme a un gruppo di ragazzi, ha “occupato” sulla scia degli occupyPd. «Ma non biasimo chi trova indigeribile l’idea. Quindi nessuno parli di espulsioni per chi non ce la farà a votarlo. Semmai vanno espulsi i 101 che non hanno votato Prodi».
Del resto, anche i giovani suscitatori di #resetPd danno per scontato che oggi avranno un governissimo. «È nei fatti», ammette Zacchiroli, «giudicheremo sul programma, e speriamo non ci siano ministri impresentabili». «Pensiamo adesso a rifare un partito paralizzato dalle vecchie appartenenze », aggiunge Rizzo Nervo, «Ma vi rendete conto che il Pd non può fare un incontro con la Fiom, o con la Cisl, perché si alza subito qualcuno a gridare allo scandalo? Un partito che ha paura di un tweet?». Eppure questo partito l’avete sostenuto, voi tre assessori avevate scelto di «partire con Bersani per il mare aperto». «Be’, è successo che la barca si è rovesciata», ammette con sincerità. Sindrome da Costa Concordia: era meglio cambiare il comandante prima? I renziani della prim’ora come il professor Salvatore Vassallo sono ironici con i nuovi insorgenti: «Invece di sparare tweet di riposizionamento a raffica, dite cosa volete fare da grandi». «Se i renziani fanno i gelosi, allora vuol dire che il problema del Pd non è risolto», reagisce Rizzo Nervo. Nervosisimi fra rottamatori e resettatori, nel laboratorio bolognese. Nulla garantisce che, spegnendo e riaccendendo il Pd, il virus sia scomparso.
La Repubblica 27.04.13