La cosa che più fa male – e sulla quale bisognerebbe concentrare l’attenzione – è che il Pd così com’è (e quindi la sinistra italiana reale così com’è) non si è mostrato in grado di guidare l’Italia in un passaggio davvero cruciale della sua vicenda nazionale. Un Paese che non ha futuro se non riesce a collocarsi tra i costruttori di una nuova potenza europea.
Qui sta la sconfitta del suo gruppo dirigente. Una sconfitta molto amara ma senza appello. E tuttavia tale – essendo quella la posta in gioco – che nessun altro, nel campo democratico, ha vinto. Cerco di capire cosa sta succedendo guardando alla realtà prima ancora che al partito. Lo confesso, io non riesco a spiegare tutto con gli errori di Bersani e con la debolezza e le contraddizioni irrisolte del Pd (ho tanto scritto, come nessun altro, su queste cose). Magari. Purtroppo c’è altro. C’è un grado estremo di logoramento del rapporto di fiducia tra i cittadini e i partiti. C’è un inquinamento morale della politica che è alimentato non solo dalla corruzione di troppe persone ma dall’estrema difficoltà del sistema politico così com’è di offrire una via d’uscita a un Paese già in decadenza per la somma dei suoi antichi mali e che, per di più, è coinvolto in una più vasta crisi mondiale la cui caratteristica è tale da travalicare i confini dell’economia. Accenno solo al fatto che questo strano «liberismo» provoca non solo ingiustizie estreme (arricchimenti inauditi e povertà al limite del servaggio) ma erode le basi del contratto sociale e dell’etica pubblica.
È questo la miscela esplosiva che sta investendo un Paese fragile come l’Italia. Ecco perché io temo che il collasso del Pd non è separabile da questo drammatico passaggio. Ricordiamoci che quando una crisi supera una certa soglia è allora che si arriva a un bivio. Da un lato si può aprire la strada a un grande cambiamento, il quale però sia capace di ricomporre su basi nuove e più giuste una comunità nazionale e non solo qualche spezzone della sinistra. Di questo si tratta, non di un «inciucio» con Berlusconi. Io non lo voglio, ma l’alternativa non è l’isolamento della sinistra. Stiamo attenti. È da tempo che va avanti un processo di logoramento delle istituzioni. La rielezione di Napolitano al Quirinale e la forza e la drammaticità del suo discorso sono da meditare.
Tutto ciò che sto dicendo non è affatto un alibi per il Pd, un modo di nascondere i suoi errori gridando a un presunto pericolo fascista. Le cose sono molto più complicate. Il fatto è che il mondo in cui siamo immersi è «grande e terribile». È pieno di grandi incognite, è percorso da poteri giganteschi anche privati che nessuno controlla (pensiamo al ruolo soverchiante dei «media»). Ma al tempo stesso è un mondo carico di bisogni nuovi, di domande di valori e di significati. È un mondo che chiede grandi cambiamenti. Questo è il punto. Chi dà risposte? Se non vengono date, si capisce allora perché una forza progressista va allo sbando: perché è priva di una base culturale forte. In un partito che non ha padroni solo le grandi idee fanno amalgama. Se ci sono solo politiche di breve periodo, alla fine prevalgono i giochi personali e i calcoli di potere. Chiedo scusa, ma a mio parere è questo il vero errore fatto dai leader del Pd, ed è per questo che non si è formato un gruppo dirigente capace, come dice Bersani, di «far girare la ruota». Smettiamola di gettarci il fango addosso. Per me resta il fatto che una forza come la nostra è in grado (se vuole) di pensare come difendere la Repubblica dai rischi che la minacciano e come affrontare le sfide dell’Europa e del mondo. E può – al tempo stesso – lavorare per una nuova democrazia di popolo e per un umanesimo moderno basato sulla libertà dell’uomo sociale e sulla creatività del lavoro.
Ecco il messaggio che dobbiamo dare soprattutto ai giovani. Non concedere nulla alla demagogia e alla violenza. Ma al tempo stesso, capire che anche nei voti per «cinque stelle», c’è una domanda enorme di cambiamento. È giunto quindi il momento di uscire dal generico e di non ridurre tutto a un problema di persone. È di una svolta che abbiamo bisogno. Sullo sfondo c’è il problema di riposizionare il riformismo rispetto alla crisi di un sistema economico e culturale che ha finito col produrre lacerazioni insostenibili sul terreno so- ciale e col creare più rendite che ricchezza reale.
Le vecchie dispute tra statalisti e liberisti, tra socialdemocratici e cattolici non hanno più molto senso. Non servono i vecchi schemi ideologici. Solo restando insieme possiamo mettere in moto movimenti reali, nuovi bisogni, e alimentare la volontà delle persone di riprendere il controllo della propria vita. Non serve lo scoraggiamento. Un partito serio è come il gigante Anteo che ritrova la sua forza toccando la terra. La nostra terra è la capacità della società italiana di riannodare i suoi fili (a cominciare da quello che ancora legano Nord e Sud) senza di che il Paese non esce da una crisi di questa natura. Attenzione, amici. Il cambiamento non può contrapporsi alla necessità di unire forze diverse, dalla società e non solo dalla politica. La ragione è molto semplice. Per uscire da una crisi di questa natura e quindi per governare l’Italia in senso progressista non bastano le ricette tecnico-economiche. Il problema è altamente politico. È quello di organizzare una nuova combinazione di interessi, un nuovo blocco sociale. È la capacità di indicare una prospettiva alla sinistra che sia organica a una nuova prospettiva per tutti gli italiani. È il nesso tra una più forte identità della sinistra e una nuova sovranità «italiana europea». Salvare l’Italia non è in contraddizione con il cambiamento. Anzi. È il più grande e il più radicale dei cambiamenti.
L’Unità 24.04.13