La solenne rampogna di Napolitano è stata accolta con sincera contrizione. La classe dirigente è in castigo. Al letto senza cena. Bando alle moine, ora si procede a consultazioni lampo. Gli unici a tenere il muso sono i ribelli Cinque Stelle. Durante il discorso del presidente ostentano indifferenza con il mento in alto, sempre rivolto a Beppe Grillo.
Mentre il Pd si sottopone a una perizia psichiatrica nazional popolare, contando le identità multiple sul lettino dell’analista (ex Ds, ex Margherita, ex bersaniani, neo-renziani, dalemiani, popolari, liberi battitori, falchi tiratori e Pippo Civati), mentre il Pdl sorride fingendo di avere la coscienza a posto, il Movimento pentastellato mette sotto processo il senatore ciociaro Marino Mastrangeli, reo di aver partecipato a trasmissioni televisive con la Costituzione in mano e i fari luminescenti di Barbara D’Urso a sbiancare il sorriso. Troppo facile, ora, citare Marx, e la tragedia che si ripete in farsa. E però mai, come stavolta, andando con la mente ad altri momenti funesti della Repubblica, ad altri processi in nome del popolo, gli apici spuntanti delle Cinque Stelle ci raccontano i nostri tempi, indegni perfino di un epilogo epico.
In diretta streaming singhiozzante, siamo testimoni involontari del processo contro uno sprovveduto presenzialista che, con la stessa confusione linguistica di un Aldo Biscardi e la sua «moviola in campo», reclama libertà di parola in libero talk show. Il verdetto è senza scampo: Mastrangeli è un traditore. Che si proceda all’espulsione. Ma il senatore non ci sta. E tira fuori (lui, sì, li ha) i numeri: sono il miglior eletto nel Lazio, si difende. E si appella al popolo della rete per un riconteggio, prima della scomunica. Intanto – meglio tardi che mai – escono i dati tanto attesi delle Quirinarie. I numeri segreti che per ore e giorni hanno tenuto l’Italia in apnea, con il collo fermo sotto la ghigliottina del furore popolare, nel plateatico di Montecitorio. Più che di popolo – oggi possiamo dirlo – si trattava di un capannello. Ma quello che conta è dare l’idea. Amplificare il frastuono con il megafono della rete. Gonfiare i sentimenti, sturare la pancia biliosa della gente, come un Berlusconi da antologia. Si confida nel passaparola.
L’architettura numerica dei Cinque Stelle, per chi sa intenderla, è organizzata messianicamente, come le strutture multilevel che devono piazzare i venditori, prima ancora che gli aspirapolvere. Una piramide rovesciata. Otto milioni sono i voti per il Movimento 5 Stelle alle politiche. Quarantottomila, circa, sono gli aventi diritto a votare sul sito di Beppe Grillo. Di questi, solo 28 mila si sono espressi per le Quirinarie (procedura, s’è già detto, costituzionalmente arbitraria, anche secondo i giuristi non ortodossi). Di tutti questi, solo uno ha diritto di veto: il Capo comico.
Stefano Rodotà, persona per bene e grande giurista, dovrebbe chiedere i danni per millantato credito. Per spergiuro di cognome. Con le sue quattromila e settecento preferenze scarse, il giurista avrebbe preso meno del terz’ultimo candidato alle primarie del centrosinistra per il Campidoglio, Gemma Azuni. Il sospetto di doping virtuale punge anche Giorgio Napolitano: c’è del marcio nella propaganda del web. Mentre Grillo grida al golpe infiammando la piazza, Rodotà corre a smentire: l’elezione di Napolitano è a norma di Costituzione. Allora arriva la rettifica, ma non la smentita: visti i numeri in ballo del Cinque Stelle, meglio parlare di un golpettino.
Si sa, la rete pesca a strascico. Delfini e squali. Alghe e rottami. C’è di tutto. Ma in rete ogni gesto diventa magico. Iniziatico. Non sono previsti garanti, o rappresentanti di seggio a reclamare la verifica delle schede. Intanto, di là da ogni previsione, Debora Serracchiani, nuova generazione del Pd, per un pugno di voti espugna il Friuli, malgrado il Pd. Il partito non ringrazia, anche se questo risultato vale a salvare la faccia. Il Cinque Stelle cola a picco, sotto il 20 per cento. In questi casi, il non-statuto suggerisce di ignorare la sconfitta, con un bel silenzio stampa.
L’Unità 24.03.13