Garante della stabilità delle istituzioni e dell’unità nazionale, arbitro super partes pronto a richiamare le forze politiche al rispetto delle regole e a un confronto finalmente più civile. Giorgio Napolitano sta per lasciare il Quirinale, e il bilancio dei suoi sette anni è in buona parte nell’unanime riconoscimento che gli viene tributato dalle forze politiche, anche da quelle che sette anni fa non lo votarono, e soprattutto dagli indici di popolarità raggiunti. Quanto a livello di fiducia, stando al sondaggio condotto dall’Ipsos, Napolitano raggiunge l’84% tra giudizi positivi e sufficienti. Attestati tutt’altro che formali, poiché dopo il settennato di Carlo Azeglio Ciampi, quello di Napolitano ha contribuito in modo determinante ad affermare la centralità e il prestigio del Colle più alto. Non era affatto scontato che finisse così, date le premesse. Altissima conflittualità politica, la più grave crisi economica dal secondo dopoguerra, l’ampliarsi delle diseguaglianze e del divario tra Nord e Sud del Paese, l’allarmante aumento della disoccupazione soprattutto giovanile. Napolitano ha cercato di far leva, come in occasione delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità nazionale, sulle energie migliori del paese e sul senso di appartenenza a un’unica nazione pur nella molteplicità delle realtà che vi sono rappresentate.
Esordio già in salita, con il governo Prodi appeso al Senato a una manciata di voti. Due anni sull’ottovolante, la chiusura anticipata della legislatura e nell’aprile del 2008 il ritorno di Berlusconi. Convivenza complessa, per le conseguenze del durissimo braccio di ferro del cavaliere con la magistratura. A Berlusconi che nel pieno del «caso Ruby» tuonava contro i metodi «da Germania dell’Est» della procura di Milano, Napolitano replicava che «nella Costituzione e nella legge possono trovarsi i riferimenti di principio e i canali normativi e procedurali per far valere insieme le ragioni della legalità nel loro necessario rigore e le garanzie del giusto processo». Occorrono scelte «organiche e condivise», reiterati i suoi appelli ad abbassare i toni, ad individuare possibili terreni d’intesa, obbligati nel caso delle riforme costituzionali, così come sulla legge elettorale. Di certo uno dei momenti di maggiore frizione con il governo Berlusconi lo si può datare nel febbraio 2009 con lo stop al decreto sul caso di Eluana Englaro. E poi nell’ottobre di quello stesso anno, dopo la bocciatura del lodo Alfano da parte della Consulta, e ancora nel marzo del 2010 con il pasticcio delle liste per le elezioni regionali.
Poi il nutrito dossier dei richiami a governo e Parlamento sul fronte dei provvedimenti legislativi, in particolare per quel che riguarda la prassi a stravolgere il contenuto dei decreti legge in sede di conversione. Moral suasion a tutto campo, che è servita a evitare ulteriori strappi, tanto che in sette anni Napolitano ha rispedito alle Camere un solo provvedimento, il «collegato lavoro» alla Finanziaria 2009. E poi lo stop con richiesta di modifiche al decreto legislativo sul fisco municipale, il gran caos sulla gestione dell’emergenza rifiuti, i rilievi che hanno accompagnato il via libera alla riforma Gelmini. Moral suasion e «diplomazia parallela» che nel caso della manovra del giugno 2010 ha prodotto lo stralcio del taglio agli enti culturali, o che nel caso delle più estensive norme sullo scudo fiscale, introdotte dal Senato nel settembre del 2009, ha aperto la strada al via libera del Colle solo dopo «attento esame».
Costanti e ripetute le denunce sulle «morti bianche», vera piaga nazionale, al pari degli appelli a porre il tema della crescita e dell’occupazione al primo posto dell’agenda politica. Prestigio internazionale indiscusso, quello di Napolitano attestato dalla stima e dai rapporti privilegiati intessuti con tutti i leader europei e con il presidente degli Stati Unit, Barack Obama. Patrimonio di credibilità personale che gli ha consentito di pilotare di fatto in stretto collegamento con le cancellerie europee il cambio della guardia a palazzo Chigi nel novembre 2011. Poi lo scorcio finale del mandato, il più complesso dato l’esito del voto, e la conseguente presa d’atto che gli spazi praticabili per la formazione del nuovo governo non possano che essere esperiti dal suo successore. Il lavoro dei saggi da lui insediati – è il suo passaggio del testimone – «è stato tutt’altro che una perdita di tempo».
Il sole 24 Ore 19.04.13