La scelta per il nuovo Presidente della Repubblica non si fa per concorso, ma non si fa neanche con un sondaggio di popolarità. La mancanza di autorevolezza da parte della classe politica a cui spetta la nomina del Capo dello Stato è tale che si sta diffondendo un nuovo gioco di società, all’insegna del presidente preferito. Chi lo vuole donna, chi giovane, magari senza sapere che deve almeno aver compiuto 50 anni, chi lo vuole «nuovo», fuori dall’aborrita casta, chi lo vuole, invece, esperto, ma simpatico come Pertini, competente come Ciampi, saggio come Napolitano. Insomma, ogni italiano possiede l’identikit giusto, come quello dell’allenatore che saprebbe far vincere alla sua squadra la Coppa dei Campioni.
Il problema è che il futuro presidente italiano avrà un compito ancor più difficile. Altro che Coppa dei Campioni : qui si tratta di non far scivolare il nostro Paese nella serie B delle nazioni nel mondo. Ecco perché il punto di partenza da cui far nascere questa scelta non dev’essere il balletto sul nome a noi più gradito, ma una seria riflessione sul ruolo che dovrà svolgere il nuovo inquilino del Quirinale e, quindi, sulla persona più adatta a ricoprirlo nelle attuali difficilissime circostanze.
Le istituzioni politiche, come gli organi del corpo umano, si modificano secondo le funzioni a cui sono chiamate. La presidenza della Repubblica è l’esempio più evidente di questo fenomeno. Nella prima fase dello Stato democratico, caratterizzata da partiti forti, ideologie forti e forte identificazione degli italiani con i loro rappresentanti in Parlamento, bastavano capi dello Stato notai o arbitri. Quando si sono manifestate, tra crisi economiche e tensioni sociali, le prime vistose crepe nei rapporti tra la classe politica e cittadini, durante gli Anni 70 e 80, il Presidente è diventato il parafulmine dello scontento popolare, inteso sia come megafono degli umori generali, sia come mediatore dei conflitti. Una funzione esemplarmente esercitata da Pertini e, in parte, anche dal «picconatore» Cossiga. Il trauma del passaggio tra la prima e la seconda Repubblica, richiedeva, invece, la garanzia di un vecchio «padre della patria», come il costituente Scalfaro o quella riscoperta dell’orgoglio nazionale, indispensabile cemento unitario contro la disgregazione della Repubblica, che, forse, solo un’azionista come Ciampi poteva compiere senza rischi nostalgici.
È toccata a Napolitano l’ultima, necessaria metamorfosi quirinalizia. In una drammatica spaccatura tra destra e sinistra, tra berlusconismo e antiberlusconismo, una sfida che ha sostanzialmente bloccato lo sviluppo italiano condannando il nostro Paese all’immobilismo e, quindi, al declino, l’attuale Capo dello Stato è stato costretto a guidare la politica, rappresentando, dentro e fuori i confini nazionali, l’unica istituzione autorevole, super partes, capace di suscitare fiducia nei cittadini. Una istituzione, quella della presidenza della Repubblica, che, ormai, è più importante della presidenza del governo e tale sarà destinata a restare.
La memoria del passato, oltre a essere utile per diradare un po’ le nebbie del futuro, può servire anche per smascherare alcuni pregiudizi e far emergere la banalità di alcune delle osservazioni che, in questi giorni, sono più ripetute. Napolitano, non solo fu eletto da una risicata maggioranza, ma, quando fu nominato, era un politico di lunghissimo corso, per di più erede di una militanza comunista mai rinnegata. Eppure, l’uomo di parte è diventato il Presidente di tutti, anche dell’anticomunista per eccellenza, Silvio Berlusconi. Ma, cosa ancor più straordinaria, gli italiani, non considerano Napolitano un rappresentante della cosiddetta «casta», anche se ha passato più di mezzo secolo nelle aule parlamentari. Proprio perché, come si è detto prima, la funzione che le circostanze storiche costringono a esercitare al Quirinale è capace di trasformare l’uomo che vi abita. Fa diventare un democristiano, colto e riservato come Cossiga, un fantasioso demolitore del «bon ton» istituzionale. Costringe un severo conservatore come Scalfaro a essere considerato un campione della più accesa sinistra. Prende un garbato governatore della Banca d’Italia, lo avvolge in una bandiera tricolore e lo mette a cantare, con tutti gli italiani, l’inno di Mameli.
Ecco perché non è importante che il prossimo presidente sia uomo o donna, giovane o vecchio, politico di antica data o di fresca esperienza e, magari, neanche conterà il numero dei suoi elettori o il loro colore politico, anche se è auspicabile, naturalmente, la più ampia condivisione della scelta. Dovrà essere una persona che per 7 anni, un periodo che non consente una nomina dettata da esigenze contingenti, garantisca che la politica italiana, in un momento di estrema conflittualità interna e discredito tra i cittadini, non corroda le basi della democrazia. Dovrà essere punto di riferimento internazionale, interlocutore affidabile e autorevole dei più importanti leader , immagine di un’Italia rispettata nel mondo. Dovrà aiutare, con scelte difficili e pure impopolari, a far superare quel conservatorismo sociale e quell’egoismo corporativo che blocca, da almeno due decenni, l’economia del nostro Paese e che non si battono con la demagogia.
Compiti molto ardui, che richiedono competenza istituzionale, capacità di guida politica, esperienza internazionale, ma anche coraggio morale per compiere scelte innovative e resistere alla pressioni delle convenienze e delle abitudini. Perché il prossimo Presidente della Repubblica sarà determinante per il futuro del nostro Paese. Non è il caso di sceglierlo con l’applausometro.
La Stampa 17.04.13