Un partito che discute in modo anche aspro è un bene da difendere. Perchè un vero partito non ha padroni, non c’è uno che detta la linea e altri che eseguono. È invece la sintesi del confronto tra sensibilità e visioni diverse, tra opzioni e strategie differenti. Questo vale per tutti, ma vale soprattutto per il Pd che ha nel suo Dna quella parola democratico che è così fortemente impegnativa e che è il frutto di storie che hanno segnato la vita della Repubblica e la crescita civile dell’Italia. Non bisogna spaventarsi delle diversità, perché esse sono una ricchezza e perché solo la battaglia delle idee può dare forza e coesione a un progetto di cambiamento. Il Pd non è nato per appiccicare l’una all’altra le correnti del riformismo democratico. È nato invece perché da quelle spinte venisse fuori una nuova idea, una nuova sfida per l’Italia del nuovo millennio.
A quelle storie lontane, che hanno radici forti nel Paese, si sono unite storie più giovani e tutte insieme hanno cercato un modo originale di guardare e di capire il mondo. Con l’obiettivo di fare finalmente, con la forza del pluralismo, quella riforma intellettuale e morale della nazione che va oltre lo spazio dell’oggi.
È giusto che dentro un partito così ci siano forti passioni. Sta qui, in fondo, l’ambizione del progetto: laici e cattolici, la radicalità della sinistra e il pragmatismo liberale, il socialismo europeo e la visione democratica di Obama, la prateria di un welfare rinnovato e la difesa dei più deboli, l’innovazione come motore di cambiamento e lo sforzo di portare tutti nel nuovo mondo, senza escludere nessuno. Sono proprio queste correnti di pensiero, con tutte le contraddizioni che creano, a dare dignità e sostanza a una battaglia comune. Perché la rendono più viva, più contendibile, e possono offrire linfa alla buona politica.
Questa deve essere la forza del Pd. Un partito nel quale nessuno ha paura di dire la sua, di sostenere un’altra linea, di suggerire un altro percorso. Nel quale ci si divide e si litiga perché la politica è fatta di visioni nette, di scelte coraggiose. Anche di rotture, di contestazioni, di contrapposizioni. Ma c’è un limite invalicabile: tutto questo deve avere un senso comune. C’è una comunità che il Pd deve rappresentare, e quella comunità è fatta di donne e di uomini che hanno a cuore il futuro del loro Paese, che si battono in ogni città perché le cose funzionino meglio e perché il cambiamento non sia solo una parola da spendere nei comizi o nei talk show. Una visione del bene comune tiene unito questo popolo, che immagina un’Italia diversa e che porta con sé parole come giustizia, equità, solidarietà, lavoro. Prima di tutto a loro occorre rispondere.
Il Pd non è un monolite, né una caserma con i generali e gli ordini scritti. Tutto è consentito, anche lo scontro più feroce. Però no, non è consentito che nella battaglia si trascinino le istituzioni, soprattutto l’istituzione più alta e più delicata del nostro sistema democratico quale è il Quirinale.
Perché il capo dello Stato è una figura di garanzia su cui va ricercata, in modo ostinato, la condivisione piuttosto che la separazione. La responsabilità nazionale deve impedire, perciò, che si combatta una guerra senza esclusione di colpi all’ombra del Colle. Perché ciò può produrre ferite che rischiano di danneggiare non solo la propria comunità e la propria «mission», ma lo spirito democratico del Paese. Sì, in un partito democratico è consentito tutto ma non l’insulto, l’offesa, il dileggio che trascinano le persone sulla piazza. C’è una regola basilare che tiene unita qualsiasi comunità: il rispetto reciproco.
Sospetti e veleni appartengono a un altro mondo, a un’altra idea della politica. Il Pd e ciascuno dentro il Pd deve spegnere l’incendio finché si è in tempo. Prima che il fuoco di un’insensata controversia bruci la casa.
L’Unità 16.04.13