«Non c’è altro da fare che riconoscere che la politica di austerity è un disastro. Purtroppo è il governo tedesco a dimostrare di essere poco pragmatico, come fosse legato alla volontà di affermare il principio codificato da Martin Lutero e Max Weber: solo i protestanti e in generale i nordici sanno gestire l’economia». Ulrich Beck, sociologo ed economista, docente alla Ludwig Maximilian University di Monaco nonché visiting professor ad Harvard e alla London School of Economics, teorico con Anthony Giddens della terza via di Blair e Schroeder, è in Sudamerica per una serie di conferenze sulla “modernità europea”: «Qui c’è molto interesse ci dice al telefono – ma anche molta sorpresa perché un’area così grande e importante come l’Europa non riesce ad uscire dalle secche della crisi».
Forse, professore, tutta questa modernità è invecchiata…
«Se è per questo, oggi può apparire anche un progetto suicida. L’Europa è come un’automobile di prestigio, costruita con cura e con meravigliose cromature, alla quale però si sono dimenticati di mettere i freni. Corre impazzita e nessuno riesce a prevedere come andrà a finire, salvo essere tutti pessimisti. Non è la prima volta che la modernità è messa in discussione. Dai tempi della rivoluzione industriale di fine ‘700, l’Europa segna la linea per il mondo. Lo ha fatto con l’energia valorizzando il nucleare. Poi è arrivato Chernobyl ma intanto erano state costruite centinaia di centrali atomiche in ogni angolo del pianeta. E i cambiamenti climatici? Una drammatica incapacità di risolvere il problema».
Cosa manca all’Europa per diventare un’area di sviluppo e non un focolaio d’infezione?
«La consapevolezza del significato della solidarietà. E’ qui la risposta alla domanda: come superare l’austerity? Altro che rigore fiscale imposto con le buone o più spesso con le cattive. Solidarietà vuol dire democrazia: non è possibile che un Paese, sia pure forte e rispettato come la Germania, decida del destino di un altro, mettiamo la Grecia. Il multilateralismo si è trasformato in unilateralismo, l’eguaglianza in egemonia, la sovranità in dipendenza. Dov’è la dignità di un Paese?
Perfino la Francia, ora che il suo rating è in discussione, deve ottemperare con cura alle disposizioni tedesche».
C’è da dire che se la Grecia crolla, il crac lo pagano i contribuenti tedeschi…
«Ho appena pubblicato un libro, German Europe, per spiegare che non è possibile che la crisi dell’euro renda Angela Merkel la regina d’Europa, che impone la sua disciplina di bilancio provocando rivolte e povertà. È vero, in Germania c’è stata una specie di rivoluzione.
Sembrava un paese rigido, incapace di modificare il suo mercato del lavoro, poi il governo è riuscito a vincere la sfida con la collaborazione dei sindacati. Ma questo non giustifica l’arroganza. Egoismi e nazionalismi, e mi fa paura usare questo termine, si annidano ovunque: manca la prospettiva europea in senso genuino, non dominata dagli interessi nazionali, manca pensare come europei. Non solo per la crisi dell’euro ma per il corollario di aspetti sociali, umani, politici che sono l’essenza del sogno comune».
È destinato a rimanere un sogno?
«Era partito benissimo. Pensi a quale miracolo è stato mettere insieme Stati che tante volte erano stati nemici. Con gli anni si è materializzato poi il vero motivo per cui dall’Europa non si deve sfuggire: i singoli Paesi sono troppo piccoli per reggere alla sfida della globalizzazione. Essere uniti nell’Europa fa sentire forti».
Forti ma instabili…
«Lo sa di cosa c’è bisogno? Del contributo degli intellettuali. I governanti sono ossessionati dall’economia, invece dovrebbero armarsi di umiltà e ascoltarci. Con Daniel Cohn-Bendit e qualche altro studioso, abbiamo creato un movimento d’intellettuali di ampie vedute e stiamo raccogliendo le adesioni in Europa».
Eppure i padri fondatori, Spaak, Adenauer, De Gasperi, e poi Delors e Kohl, non erano economisti. Perché i temi economici hanno assunto questa centralità?
«Difficile spiegarlo, ma le dirò di più: c’è un’ipertrofica presenza della finanza, che dovrebbe essere solo una parte dell’economia. E il lavoro, i redditi, le disuguaglianze, la formazione? E poi lo sguardo deve andare oltre, all’insieme delle istanze sociali, della cultura, della storia. Tutto questo deve tenere unita l’Europa. Stiamo mancando gli elementi più importanti per l’ossessione dell’unione monetaria. Che porta a forzare i Paesi a risolvere i problemi delle banche tagliando i fondi per l’educazione, per l’assistenza sanitaria, per i sistemi pensionistici. Una follia. Si crea un gigantesco problema di ingiustizie sociali che serviranno decenni per risolvere, e si apre lo spazio per forze politiche antieuropee: c’è il pericolo che questi partiti asimmetrici conquistino un ruolo rilevante al Parlamento europeo fra un anno e mezzo. Sarebbe grottesco».
Visto che il governo tedesco ha il ruolo centrale, pensa che qualcosa cambierà, e quindi si allenterà la morsa dell’austerity, dopo le elezioni del prossimo autunno?
«Mi faccia precisare un punto per completezza. La Germania non ha cercato la leadership. Anzi, all’inizio il Paese dominante sembrava dovesse essere la Francia, che ottenne di portare Berlino all’interno dell’euro nel contesto del post-riunificazione pensando di poter condurre i giochi. Non è andata così per l’imprevista potenza economica assunta dalla Germania, come dicevo, negli ultimi anni. Ora la speranza è che si ricrei la grosse koalition con verdi e socialdemocratici, che però in questa fase mostrano una sconcertante scarsezza di proposte, come fossero annichiliti di fronte alla forza della Merkel. Eppure è da questo dibattito che dipendono il futuro dell’euro e le politiche di maggiore o minore rigore che saranno imposte».
La Repubblica 15.04.13