Striscia e bussa, Pierluigi. «Eh…», risponde lui, cercando con gli occhi la voce che si era fatta sentire, netta, in una pausa del discorso del leader del partito democratico. C’è poca luce nella sala del Mitreo, il centro policulturale del Corviale dove il Pd è venuto a parlare di soluzioni, in un posto pieno di problemi.
«Striscia e bussa»: è una dichiarazione d’intenti del Tressette, gioco di carte e di popolo. Una mossa d’attacco: si bussa, le nocche sul tavolo, quando si hanno carte buone e si vuole “la migliore” dal compagno. Si striscia, spianando con la mano, quando le carte permettono un gioco lungo. Si striscia e si bussa, insieme, quando si vuole comandare. Ma servono le carte buone, in ogni partita. Cos’ha in mano Bersani?
Il mandato elettorale: «Siamo la coalizione di maggioranza». La voglia di cambiare: «Si può fare. Questo centro è nato dopo una mia legge per aprire centri di aggregazione in zone “difficili”. Ero ministro dell’Industria e pensavo alle
periferie: vengo da una storia e so che senza equità sociale e senza mutualità non c’è sviluppo, né crescita. Ce ne sono parecchie di leggi Bersani», aggiunge, «e tutte hanno una caratteristica in comune: sono leggi che cambiano qualcosa».
La diversità: «Non è vero che siamo tutti uguali. Non ci credete. Per loro la povertà è compassione, perché rimuovono il tema sociale. Per noi è una lotta centrale: una società diseguale non può camminare. Se la nave affonda non si bagna solo la terza classe. Il governo dovrà rilanciare l’economia del Paese, creare lavoro: e si parte dal punto di vista di chi sta peggio». L’orgoglio, tanto in questo discorso che sembra il manifesto del Bersani pride (la mia storia, le mie leggi). Questa è per Renzi, che definì «umiliante» il confronto con il Movimento 5 Stelle: «Mi dice che ci vuole dignità. Una frase così non l’avrei accettata nemmeno da mio padre, ma per il bene del partito sto zitto. L’arroganza umilia chi ce l’ha». Dice anche: la politica faccia presto. «È un invito indecente: non accendiamo micce qualunquiste. Lo so che le persone vogliono un governo. Le incontro, me lo chiedono». La coerenza, allora: «E mi chiedono anche di far bene e non fare inciuci», e così fa la platea: non cedere a Berlusconi, «no che non cedo. Mi ci vedete al governo con Brunetta? Il governissimo non è la risposta ai problemi dell’Italia».
Che fare, si domanda, come i contadini di Fontamara. La lotta alla povertà, dunque, come innesco di un cambiamento virtuoso. La lista, le ultime carte: «Politiche del lavoro, rimpolpare di soldi gli sportelli e gli ammortizzatori sociali, insistere con la social card, riformare l’Imu (più leggera per le fasce deboli, più aspra sulla grandi proprietà immobiliari), aumentare il reddito minimo, rafforzare il diritto allo studio, riqualificare le scuole di quartiere (perché chi parte bene, va avanti). Tenere sotto controllo le tariffe. Vedere e rivalutare con gli enti territoriali i servizi ai disabili».
Aveva cominciato l’intervento con i suoi gusti: «Mi piace moltissimo essere qui. Dà l’idea di quello che vogliamo essere: un partito presente sui territori, che si confonde con la vita dei cittadini». Gli piace essere qui, al Corviale, nella stecca di cemento più popolare di Roma. Per parlare di povertà e qui non manca: non è quella deprivata di tutto, mendicante, disperata. È quella relativa, moderna, che tira a campare ma non conosce il vento buono dei sogni. Sono ottomila persone dentro un palazzo di un chilometro, che a metà vira ad angolo retto. Troppo grande, troppo brutto, troppo tutto, figlio di un’architettura che volle farsi urbanistica, e che era anzitutto ideologia. Il riferimento culturale era il razionalismo e con questo la promozione sociale: a piani, nove. Ma la metà degli ascensori sono rotti. Esattamente dal 1982, dal giorno in cui fu inaugurato (dopo dieci anni di lavori): l’ascensore rotto è la migliore metafora che si possa immaginare. Dal Corviale non si sale. Sono cartacce in mano, non si gioca alla pari. «Mio figlio ce l’ha fatta, lavora con il computer, non saprei dire cosa fa di preciso, ma è bravissimo. Mia figlia lavora all’aeroporto, a Fiumicino. Sono un imbianchino e sono riuscito a farli studiare, perché l’affitto è basso e ho risparmiato. Hanno preso la licenza media». È l’orizzonte di Michele Ulissi e della sua bella famiglia. I suoi ragazzi oggi hanno 40 anni, i loro figli sono la terza generazione del Corviale. Il patto era questo: la casa grande, economica, in cambio delle speranze. «A noi piace, a voi fa schifo»: questo è invece l’orgoglio di Raffaele Altomare, pensionato: nella “stecca” ci ha cresciuto tre figli.
È un’idea di Mario Fiorentino, che per animare gli ottomila pensò a un’agorà, per una periferia che vivesse da sé, per sé. E trovasse riscatto in questo. Non c’era un comunista in giunta, allora, e il palazzo fu benedetto dal Cardinal Poletti. Eppure nell’immaginario è un’opera di sinistra, anche marxista, egualitaria, opprimente, per chi conosce poco Marx e pochissimo la storia. Adesso c’è la biblioteca, un vivace centro d’arte (quello costruito con i soldi della legge Bersani), ci passa il bus. C’è il verde, spontaneo, poco curato, ma il Serpentone (così lo chiamano i romani) non si nasconde, è dritto e caldo sotto un sole estivo.
Fra gli altri, prima di Bersani aveva parlato Mario Maffei consigliere municipale a Scampia, Napoli. Il colpo d’occhio e l’idea di partenza sono simili, le Vele e il Serpentone: due ghetti. I destini divaricati: quello che qui fu un problema (poi risolto) di spaccio e un’angoscia di vite disilluse, là è un drammatico traffico di droga, e di vite a perdere, di lavoro che non c’è, di strade senza sbocco. «Tre Vele (su sette) sono state abbattute, per far posto a nuove case. Dobbiamo tirar giù anche le altre, ma con de Magistris perdiamo solo tempo». Quelli del Corviale lo ascoltano e lo guardano. Sono occhiate non traducibili in parole.
L’Unità 14.04.13