Piero Fassino, lei come segretario Ds fu cofondatore del partito democratico. Ora teme per la sua sopravvivenza?
«Qui non è in gioco solo il destino di un partito, e neppure solo del Quirinale e del governo, ma della democrazia. Il voto del 24 febbraio ha segnato la conclusione di una lunghissima era politica, la Prima Repubblica. Dopo tanto blaterare di Seconda Repubblica, in realtà l’assetto seguito alla guerra finisce adesso».
Perché dice questo?
«Perché l’Italia in cui siamo cresciuti non c’è più. Siamo cresciuti in una democrazia rappresentativa che aveva come pilastro i grandi corpi intermedi: partiti, sindacati, associazioni di categoria; soggetti di rappresentanza, mediatori di conflitti, elaboratori di proposte. Oggi un quarto del Paese non solo non si riconosce nei partiti, ma si organizza contestando la funzione di quei corpi intermedi. Come siamo mortali noi, sono mortali le forme della politica; e la democrazia del 2000 non può essere la stessa del ‘900. Del resto, è normale che sia così. Ogni secolo è segnato dall’evoluzione delle forme della politica. Il ‘700 con l’Illuminismo vide la fine dell’assolutismo feudale, e con la Rivoluzione francese l’eguaglianza dei cittadini. L’800 vide la fine degli imperi, la nascita degli Stati nazionali, l’egemonia della borghesia liberale. Il ‘900 fu il secolo del suffragio universale, della democrazia parlamentare, dei grandi soggetti politici di massa». Il nostro sarà il secolo della democrazia online?
«Noi oggi dobbiamo pensare le nuove forme e modalità della democrazia, nell’era del web, della globalizzazione, della società flessibile. Dal ’45 a oggi tutti siamo cresciuti in una democrazia rappresentativa il cui cuore era il Parlamento. Oggi se il Parlamento restasse chiuso sei mesi, c’è il rischio che nessuno ne chieda la riapertura. Questo è il vero tema. E nessuno lo affronta. Eppure è un tema affascinante: reinventare la democrazia. Non è un fenomeno solo italiano. Lo ritrovi in Francia, in Spagna, in tanti Paesi. Lo ritrovi in Europa».
L’Europa da sogno è diventata bersaglio.
«Appunto. La politica era forte quando mercato, nazione e Stato coincidevano e la sovranità della politica era piena. Oggi, di fronte alla globalizzazione, quante cose che investono la nostra vita non passano più per la sovranità di chi governa un Paese? Il primo scossone fu Chernobyl, che ha cambiato l’agenda ambientale mondiale. Il crollo delle banche americane e del sistema finanziario internazionale ha evidenziato l’impotenza dei governi nazionali. Fare l’Europa è più che mai necessario. Ma non puoi riuscirci se non hai con te i cittadini. Ovunque emergono forme di ripiegamento nazionale o territoriale; perché l’Europa non ha individuato ancora i modi che consentano ai cittadini di riconoscersi in essa. Il deficit non riguarda solo i bilanci, ma anche la democrazia. Che va ripensata su scala europea».
Torniamo al Pd. Lei teme una scissione?
«No, e in ogni caso va evitata qualsiasi nostalgia del passato. All’epoca dissi che doveva essere un partito nuovo per un secolo nuovo. Non era il prolungamento di ciò che c’era prima; era lo sforzo di mettere in campo una forza in grado di interpretare una società che stava cambiando tutte le sue forme di organizzazione. Se il Pd ha una missione, è questa. La sua tenuta e la sua riuscita dipendono dalla capacità di compierla, reinventando la democrazia».
All’interno del partito molte voci indicano il rischio di una rottura.
«Io credo invece che ci siano tutte le condizioni per discutere senza spaccarci, senza dividerci. Renzi, o Barca, o qualunque di noi: il problema non è il destino personale, è la responsabilità verso la nostra gente e il Paese. Ridisegnare democrazia e futuro dell’Italia, questa è la discussione vera da fare all’indomani dell’elezione del capo dello Stato e della nascita di un governo. Sono passaggi importantissimi, che però non risolvono la questione di fondo».
Già si parla di Renzi candidato a Palazzo Chigi per prendere voti al centro e di Barca segretario per rassicurare la sinistra del partito. Ma può funzionare lo schema?
«Se affrontiamo il tema in questi termini, partiamo dalla coda e non dalla testa. Dobbiamo ricostruire forme e modalità della politica: linguaggio, ruolo delle istituzioni, rapporto con gli italiani, che oggi non hanno fiducia in noi; se gli proponiamo di passare dai partiti così come sono, non ci vengono. Renzi per un verso e Barca per un altro, ognuno di noi con la sua storia e il suo lessico, hanno già aperto la discussione. Il Pd deve avere coraggio e spronare tutto il sistema politico ad avviare la fase costituente di una nuova democrazia. Non sono cose che si decidono con una direzione di partito o con un referendum tra due leader; è il momento di alzare il tono. Va ripensato tutto, anche il rapporto tra partecipazione e tecnologia. Per mezzo secolo, i partiti si sono organizzati in forme fisiche: sezioni, convegni, congressi. Radunavi gente in una stanza, un teatro, un palasport, e discutevi. Oggi i luoghi della discussione sono anche altri: il web, twitter, facebook».
Quindi è sbagliato irridere i grillini per le consultazioni online per il Quirinale?
«Io non irrido, anzi la rete ci dà un’enorme potenzialità. Ma è uno strumento, non un fine. Può essere un metodo straordinario di socializzazione, ma può anche essere usato come un luogo di stalking politico».
Lei al Quirinale chi vede?
«I nomi deve farli chi ne ha la responsabilità. Io nel 2006 fui il regista dell’elezione di Giorgio Napolitano, e ne sono molto orgoglioso».
Quali caratteristiche deve avere il suo successore?
«Deve essere frutto di una scelta condivisa. E deve essere una personalità riconosciuta nel Paese e anche fuori. La riconoscibilità internazionale del presidente della Repubblica è decisiva. In questi anni di crisi acutissime, se non avessimo avuto Ciampi e Napolitano il mondo non avrebbe saputo con chi parlare. Quando Obama chiuse il suo primo incontro con Napolitano, che doveva durare mezz’ora e durò un’ora e 40 minuti senza interprete, disse che non aveva mai conosciuto un uomo politico così…».
Napolitano però non ebbe i voti del centrodestra.
«È vero. Quando feci il suo nome a Berlusconi, lui mi disse: “Noi non lo votiamo, però posso conviverci”. Era una forma di condivisione, per quanto minima».
Meglio un’intesa con il Pdl o con i Cinque Stelle?
«L’importante è che sia una personalità in cui la società italiana possa riconoscersi e avere fiducia».
E per il governo, si può pensare a un accordo con Berlusconi?
«Guardi, intanto cerchiamo di evitare un nuovo ricorso alle urne. Da sindaco incontro ogni giorno centinaia di persone. Nessuno mi dice: torniamo alle elezioni. Il voto anticipato aggraverebbe la credibilità di tutti i partiti e del sistema. Le ipotesi sono due: un governo Bersani, espressione del centrosinistra; o un governo del Presidente, che assuma la piattaforma indicata dai saggi. Saranno decisivi l’elezione del capo dello Stato e il clima che creerà nel Paese».
Il Corriere della Sera 14.04.13