La Commissione Ue è allarmata: in Italia, le banche sono incapaci di sostenere la ripresa. Monti ha lanciato un monito sul rischio di far ripiombare il Paese nella crisi. Il presidente di Confindustria descrive una situazione economica drammatica, con pericoli di violente esplosioni sociali. Ormai tutti, da Napolitano al piccolo negoziante sull’orlo del fallimento, invocano un governo e si lamentano, giustamente, per i ritardi di una classe politica che, dopo le elezioni, non riesce ancora a formare un esecutivo che provveda a misure di politica economica urgenti e indispensabili.
Come oggi «La Stampa» documenta, l’ordinaria amministrazione alla quale è obbligato il governo Monti dimissionario, costringe l’Italia a un immobilismo ormai insopportabile. Sia per i limiti che prescrive all’iniziativa dell’esecutivo, sia, e forse con peggiori conseguenze, perché i responsabili degli uffici pubblici, senza attendibili previsioni sugli indirizzi del prossimo governo, preferiscono rinviare anche quei provvedimenti che, in realtà, potrebbero varare. Ecco perché è ormai evidente quanto siano false e pericolose quelle illusioni sulla possibilità che una nazione possa reggere senza un governo, fondate su strampalati confronti con esperienze come quelle che ha vissuto, in tutt’altra situazione, uno Stato come il Belgio.
Invocare l’arrivo di «un» governo, però, non basta. Quale governo? L’Italia non ha bisogno di un governo qualsiasi, ma del governo capace di affrontare i gravi problemi strutturali di una economia poco innovativa e inadeguata a sostenere la competitività internazionale, di riformare istituzioni non più adatte a una società che è molto cambiata negli ultimi decenni, di alleviare il peso di una politica invasiva e costosa. Per queste ragioni, non sono indifferenti le alleanze partitiche possibili e la costruzione di una maggioranza parlamentare non può limitarsi al raggiungimento di un traguardo numerico.
A questo proposito, forse non sarà così inutile, come la pensa anche qualche suo componente, quella commissione di saggi istituita dal presidente della Repubblica che ha sollevato tante critiche e tante troppo facili ironie. Innanzi tutto perché, invertendo l’ordine delle scelte sulle due più importanti cariche del nostro Stato, ha obbligato le forze politiche a cercare un ragionevole accordo sulla prima, quella per il Quirinale, foriero di un clima meno invelenito per trovare la seconda, quella per Palazzo Chigi. Poi, perché il lavoro che sarà offerto dai saggi alla meditazione di tutti potrebbe individuare davvero quel minimo programma comune sul quale si potranno dividere coloro che sono pronti a condividerlo e coloro che non lo sono.
Gli esempi di alleanze impossibili su temi fondamentali per il futuro del Paese sono numerosi e documentano come sia necessario un preventivo esame sulla diagnosi dei mali italiani e sulle terapie più efficaci per curarli. È difficile trovare un’intesa fra chi vuole l’abrogazione dell’Imu sulla prima casa e chi sostiene che, dopo questo provvedimento, l’Italia avrebbe bisogno di un’altra manovra correttiva. Fra chi crede necessario dotare l’Italia di una serie di infrastrutture moderne, più adeguate alla competizione sui mercati delle merci e chi preferirebbe un Paese disponibile alla cosiddetta «decrescita felice». O tra chi sollecita il ritiro dei nostri soldati dall’Afghanistan e chi ricorda che gli impegni internazionali dell’Italia devono essere mantenuti, pena l’ulteriore caduta del nostro ruolo e della nostra immagine nel mondo. Oppure tra chi ritiene indispensabile una riforma della legge sulla corruzione e, in generale, una profonda revisione del funzionamento di una giustizia che non tranquillizza gli investitori stranieri sulla convenienza del mercato italiano e chi, invece, pensa sia più importante puntare sulla separazione delle carriere e sulla responsabilità individuale dei magistrati. Per non parlare della condivisione indispensabile su principi fondamentali della democrazia rappresentativa e sul rispetto delle autonomie tra i poteri dello Stato. Ciò non vuol dire sanzionare l’impossibilità di un qualsiasi accordo, ma costringere le parti a un chiarimento sulle loro priorità e sui compromessi ai quali sarebbero disponibili.
In politica, quando si annunciano trattative impostate sui «criteri» o sul «metodo» per compiere una designazione a una carica pubblica si dice una bugia. Prima si cerca di trovare l’accordo su un nome e poi, alla luce dell’identikit del prescelto, si inventano i motivi che giustificano quella decisione. Speriamo che questo sistema non sia la regola per nominare il prossimo capo dello Stato. Ma sarebbe gravissimo per il futuro dell’Italia se la formazione del nuovo governo si fondasse sul gioco delle alleanze preferite dai partiti, o più convenienti per la sorte di alcuni loro leader, e non su un’intesa sulle cose da fare.
La Stampa 11.04.13