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"Nella fabbrica dei falsi le lauree 110 e frode", di Ettore Livini e Gina Kolata

Lo spread? Nossignori. Il peggior nemico dell’euro è la “Lauree Patacca Spa”, la fiorente industria multinazionale di diplomi millantati, tesi copiate e titoli di studio venduti da improbabili atenei online, che sta facendo ridere (e tremare) mezza Europa. I casi di Renzo Bossi e di Oscar Giannino sono solo la punta dell’iceberg. Una Laureopoli continentale che rischia di chiudersi ora con il botto: nel tritacarne deisospettièfinitaieri Alenka Bratusek, neo-primo ministro della Slovenia incaricato di salvare il paese (e forse anche la moneta unica) dal crac. «Il paper che le ha garantito un master in Scienze sociali — dicono implacabili i suoi accusatori — è la fotocopia in carta carbone di altri studi accademici». L’università di Lubiana ha aperto un procedimento di verifica e Bratusek ha già annunciato — facendo correre i brividi a molte cancellerie della Ue — che se il plagio fosse provato «darebbe subito le dimissioni».
Chi è senza peccato, del resto, scagli la prima pietra: la tentazione della scorciatoia accademica è una storia vecchia come il narcisismo dell’uomoealimentadasempre un indotto economico a molti zeri. E così le vie (traverse) per arrivare al pezzo di carta più prezioso del mondo, il certificato di laurea, non solo sono infinite ma sono battute pure da un’umanità varia ed eterogenea. C’è Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, che una cinquantina di anni fa ha scelto quella più diretta, fondando — almeno così sostiene la giustizia britannica — un ateneo ad personam
a Los Angeles, la Sequoia University, e auto-conferendosi un diploma honoris causaper meriti nello studio della dianetica. C’è Scott Thompson, ex numero uno di Yahoo!,
licenziato in tronco dal gigante del web per aver millanta-to una laurea in informatica. Oppure Gilles Bernheim, rabbino capo della Francia, accusato di aver copiato buona parte del suo libro “Quaranta riflessioni ebraiche” e di aver incassato la Legion d’Onore da Nicolas Sarkozy tacendo il particolare trascurabile di non aver mai ottenuto il titolo di professore in filosofia.
Peccatucci veniali. Come quelli di chi — non avendo il pelo sullo stomaco per inventarsi il titolo di dottore — se lo compra. Negli Stati Uniti, complici le rette dell’Ivy League arrivate ormai ai 40mila dollari l’anno, sono spuntati decine didiplomificichevendonodottorati “espresso” e a prezzi da saldo. La University of Berkley, una
vocale di differenza con il mitico campus californiano, propone un catalogo stile Ikea con la laurea a 2.785 dollari e un master a 3.145. Troppo caro? Poco male: Instantdegrees. com, offre un ventaglio di specializzazioni degno di Harvard — dalla Moda alla Medicina ayurvedica, da Economia e commercio fino alla Gastronomia — a partire da 180 dollari l’uno, mentre chi non ha tempo da perdere o soldi da spendere può stamparsi un certificato di laurea fai-da-te a due lire da www.123certificates. com. I controlli sono pari a zero, se è vero che Colby Nolan, un simpatico gattone di sei anni di proprietà di un procuratore generale della Pennsylvania è riuscito a guadagnarsi un diploma in Business administration alla Trinity Southern University di Dallas (poi chiusa dai giudici) senza dare un esame — per ovvi motivi — e pagando la miseria di 299 dollari.
Siamo, inutile dirlo, in pieno Circo Barnum del tarocco. Un mondo dove oltretutto non esiste senso della vergogna: «Sono molto imbarazzata all’idea che Karl Theodor Zu Guttenberg abbia copiato la tesi», ha detto Annete Schavan, ministro dell’Istruzione tedesco, commentando le dimissioni del suo collega della difesa. Salvo poi essere costretta a mollare la poltrona due mesi fa quando l’università di Dusseldorf le ha revocato per plagio la sua laurea in Filosofia.
E l’Italia? Noi — come tradizione nel campo dell’arte d’arrangiarsi — non dobbiamo farci insegnare niente da nessuno nemmeno sul fronte delle lauree patacca. Il genio nel campo, in fondo, resta il senatur Umberto Bossi (buon sangue non mente, dice chi ha seguito le peripezie accademiche del Trota) che come ha confessato il cognato «ha organizzato tre feste di laurea senza averne presa una». Nella rete del millantato credito accademico sono finiti l’ex sottosegretario alla Difesa Guido Crosetto — «ho detto una piccola innocente bugia» — reo di aver vantato un diploma in Economia e commercio inesistente, Daniela Santanchè per un contestatissimo master alla Bocconi finito nel suo curriculum vitae e la new entry grillina Marta Grande, messa in croce sul valore del suo Bachelor of Art
conseguito in Alabama. Non solo: l’università di Ca’ Foscari, è stata costretta a mettere in piedi un software anti-plagio che ha già smascherato diverse tesi riciclate e di “seconda mano”.
Il sogno della pergamena ha fatto altre vittime illustri: Lino Banfi è stato vittima della stangata dell’Università Giovanni Paolo I, aperta nel pontino all’ex tenente dell’esercito Luciano Ridolfi e finita nel mirino dell’operazione “110 e frode” dei Carabinieri. Ridolfi, cavalcando il nome di Papa Luciani e la dabbenaggine dei suoi interlocutori, avrebbe truffato decine di studenti grazie allo specchietto delle allodole del suo ateneo virtuale. Sede in un appartamento fatiscente di Latina ma in grado di consegnare finte lauree honoris causa al comico pugliese, a Rocco Buttiglione e a Joaquin Navarro Valls in pompose cerimonie nei palazzi romani, con tanto di servizio del Tg1.
Nessuna sorpresa: la voglia pazza di laurea, in un mondo dove l’apparenza conta spesso più della sostanza, non è mai calata nemmeno ora che il pezzo di carta conta meno di una volta. Il Bureau of Labour statistic di New York ha calcolato che solo sette delle trenta professioni emergenti (e solo due delle dieci più retribuite) richiedono un diploma universitario. Mentre una recentissima ricerca di AlmaLaurea sostiene che un anno dopo la tesi, la retribuzione media in Italia è di mille euro, con un tasso di disoccupazione salito dal 19 al 23 per cento per chi ha in tasca la laurea breve e dal 20 al 21 per cento per chi ha seguito i corsi di cinque anni. Tanto vale, verrebbe da dire, non star lì a perdere tempo. In fondo il povero Steve Jobs, ha mollato anzitempo il Reed College di Portland per fondare Apple malgrado il motto dell’ateneo — “Communism, Atheism, Free Love” — promettesse molto bene. E né Bill Gates, numero uno di Microsoft, né Mark Zuckerberg, il
deus ex machina di Facebook, hanno mai concluso gli studi. Volessero rimediare, no problem.
Niente di più facile che un prestigioso ed economicissimo master a Cambridge. Basta non si mettano in testa di sfidare Oxford. La Cambridge International University — sede alle Isole Vergini, cavallo di battaglia il corso di dermatologia estetica — non è stata mai ammessa (per motivi inspiegabili)
alla regata sul Tamigi.

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Riviste, studi e conferenze la pseudo accademia è sul web, di GINA KOLATA

Gli scienziati che partecipavano alla conferenza “ Entomology- 2013” pensavano di essere stati scelti per fare una presentazione alla principale associazione professionale di studiosi degli insetti. Hanno scoperto a loro spese che si sbagliavano.
La prestigiosa conferenza patrocinata dal mondo accademico che avevano in mente si chiama in modo leggermente diverso: “Entomology 2013”, senza trattino. Quella a cui si erano iscritti proponeva un elenco di conferenzieri reclutati via email. Chi ha accettato di partecipare, ha poi dovuto pagare una quota onerosa in cambio di un posto sul palco utile per rimpinguare il curriculum.
Questi studiosi sono finiti per sbaglio in un mondo parallelo di pseudo-accademia, fatto di conferenze dai titoli prestigiosi e riviste che le sponsorizzano. Steven Goodman, rettore e professore di medicina a Stanford e direttore della rivista Clinical Trials, ha definito il fenomeno «il lato oscuro dell’accesso aperto», il movimento per rendere accessibili, in forma gratuita, le pubblicazioni accademiche.
Oggi il numero di queste riviste e conferenze è esploso, insieme al mutamento del modello di impresa delle pubblicazioni scientifiche: da prodotto rivolto a organizzazioni professionali e basato sugli introiti degli abbonamenti all’accesso aperto, basato sui soldi versati dagli autori o dai loro sponsor per pubblicare saggi online.
L’accesso aperto si è diffuso con l’avvento di riviste di qualità, basate sulla revisione inter pares, come quelle pubblicate dalla Public Library of Science.
Ma i ricercatori ora lanciano l’allarme sulla proliferazione di riviste online, disposte a pubblicare a pagamento qualsiasi cosa: per i non addetti ai lavori diventa difficile distinguere quelle credibili dalla spazzatura. Così come per la maggior parte delle università sta diventando più complicato valutare i curriculum di professori e ricercatori.
Il fenomeno ha richiamato l’attenzione di Nature, che ha rimarcato «l’incremento di operatori discutibili» e si è interrogata se fosse meglio creare una lista nera di riviste o al contrario una «lista bianca» di quelle ad accesso aperto che soddisfano determinati parametri.
Jeffrey Beall, bibliotecario specializzato in ricerche all’Università del Colorado, a Denver, ha elaborato una lista delle «riviste scientifiche predatorie». Nel 2010 erano 20, ora più di 300 e, secondo le stime, in circolazione ce ne sono almeno 4.000, il 25 per cento del totale delle riviste scientifiche ad accesso aperto.
Le riviste inserite nella Beall’s listnon pubblicano sui siti le tariffe, le comunicano agli autori dopo che hanno proposto un pezzo. Tampinano professori e ricercatori con inviti a spedire articoli e partecipare al comitato editoriale. La Avens Publishing Group cerca di ingraziarsi quelli che accettano di far parte del comitato editoriale del Journal of Clinical Trails & Patenting offrendo loro il 20 per cento dei suoi ricavi.
Uno degli editori più prolifici nella Beall’s List,
Srinubabu Gedela, il direttore dell’Omics Group, ha circa 250 riviste e si fa pagare dagli autori 2.700 dollari a saggio. Gedela, che elenca fra i suoi titoli un dottorato all’Andhra University in India, sul suo sito dice di aver «imparato a inventare meraviglie della biotecnologia». Un altro editore nella lista, la Dove Press, specifica sul suo sito che “non ci sono limiti al numero o alla dimensione dei saggi che possiamo pubblicare”.
Le riviste ad accesso aperto sostengono che i saggi vengono rivisti e che la loro attività è legittima ed etica. «Non c’è nessun compromesso sulla qualità dei criteri di revisione», ci scrive Gedela via email. Ma secondo gli accademici i metodi usati non si distinguono dalle mail di spam. Il medico messicano Paulino Martínez è cascato nella trappola e ha inviato due articoli in risposta a un invito che gli era arrivato dal Journal of Clinical Case Reports.
Gli articoli erano stati accettati, poi gli era arrivato il
conto: 2.900 dollari. Ha chiesto di ritirare i saggi, ma sono stati pubblicati ugualmente. Anche alcuni professori citati nei siti di riviste inserite nella Beall’s list,
e nelle conferenze associate a questi siti, dicono di aver fatto un errore a farsi coinvolgere e che non riescono a tirarsene fuori.
Due anni fa, James White, fitopatologo alla Rutgers University, accettò di far parte del comitato editoriale di
Plant Pathology & Microbiology.
Il suo nome, la sua foto e il suo curriculum furono pubblicati sul sito. Poi ha scoperto che un sito che pubblicizzava la conferenza Entomology-2013 lo aveva inserito fra gli organizzatori. Secondo White l’editore aveva incollato sul sito della conferenza il suo nome, la sua foto e il suo curriculum. «Avrei dovuto essere più attento», dice White e aggiunge che il mondo delle pubblicazioni scientifiche «ormai sembra il Far West».
(Copyright New York Times-La Repubblica. Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 10.04.13